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Decreto privacy. Il Parlamento è favorevole ai correttivi

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Rilasciato, dalla Commissione speciale per gli atti del Governo, parere favorevole allo schema di decreto legislativo di armonizzazione dell’ordinamento italiano al GDPR. Il parere contiene molte richieste di modifica del testo pur confermando il suo impianto generale. In definitiva: nessuna abrogazione integrale del codice della privacy, ma amplissime rivisitazioni, abrogazioni e integrazioni. Il parere si chiude con la richiesta al Garante per la privacy di valutare la possibilità che, in una fase transitoria (non inferiore a 8 mesi) e successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo, non siano irrogate sanzioni alle imprese, ma si dispongano solo ammonimenti o prescrizioni di adeguamento alla nuova disciplina. Quali sono le modifiche richieste?

La Commissione speciale per gli atti del Governo ha rilasciato, in data 20 giugno 2018, parere favorevole allo schema di decreto legislativo di armonizzazione dell’ordinamento italiano al Regolamento UE sulla privacy n. 2016/679- GDPR.

Il parere segue ad un articolato iter, nel corso del quale le Commissioni parlamentari hanno audito molti esponenti del mondo associativo, imprenditoriale e dell’accademia.

Il parere svolge molte richieste di modifica del testo, che mantiene il suo impianto: nessuna abrogazione integrale del codice della privacy, ma amplissime rivisitazioni, abrogazioni e integrazioni.

Vediamo le principali modifiche richieste, tra cui spicca l’abbassamento a 14 anni dell’età per prestare il consenso al trattamento dei dati nei servizi della società dell’informazione.

Per il consenso del minore in relazione ai servizi della società dell’informazione il Parlamento chiede abbassarsi a 14 anni l’età minima per esprimere l’assenso autonomo.

Il Parlamento chiede anche di valutare l’opportunità di specificare che il titolare del trattamento deve rivolgersi ai minori con linguaggio particolarmente chiaro, semplice, conciso ed esaustivo, facilmente accessibile e comprensibile dal minore, al fine di rendere significativo il consenso prestato da quest’ultimo, le informazioni e le comunicazioni relative al trattamento che lo riguardi.

Pubblici interessi

Si propone di inserire tra le finalità di interesse pubblico rilevante che autorizzano il trattamento di particolari categorie di dato: la tenuta di registri pubblici relativi a beni immobili o mobili; l’esercizio del mandato degli organi rappresentativi, compresa la loro sospensione o il loro scioglimento, nonché l’accertamento delle cause di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza, ovvero di rimozione o sospensione da cariche pubbliche; la documentazione dell’attività istituzionale di organi pubblici, con particolare riguardo alla redazione di verbali e resoconti dell’attività di assemblee rappresentative, commissioni e di altri organi collegiali o assembleari; lo svolgimento delle funzioni di controllo, indirizzo politico, inchiesta parlamentare o sindacato ispettivo e l’accesso a documenti riconosciuto dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per esclusive finalità direttamente connesse all’espletamento di un mandato elettivo; la programmazione, gestione, controllo e valutazione dell’assistenza sanitaria, nonché vigilanza sulle sperimentazioni, farmacovigilanza, autorizzazione all’immissione in commercio e all’importazione di medicinali e di altri prodotti di rilevanza sanitaria.

Dati sanitari

In materia di misure di garanzia per il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute, le Commissioni parlamentari propongono di specificare, in un elenco tassativo e non meramente esemplificativo, le materie rispetto alle quali il Garante può adottare misure di garanzia, prevedendo altresì che tali misure individuano quelle di sicurezza, comprese tecniche di cifratura e di pseudonimizzazione, misure di minimizzazione, specifiche modalità di accesso selettivo ai dati e per rendere le informazioni agli interessati, nonché eventuali altre misure necessarie a garantire i diritti degli interessati.

Diritti interessato

Il parere chiede coordinamento con le norme in materia di whistleblowing (per tutelare l’anonimato).

Sanzioni

Quale norma di garanzia il Parlamento chiede di prevedere la notificazione della contestazione all’interessato di violazioni, assistite da sanzione amministrativa, anziché la mera comunicazione, giacché quest’ultima risulta priva delle caratteristiche di certezza necessarie nell’ambito dei procedimenti sanzionatori e prescrittivi amministrativi.

Per i proventi delle sanzioni, si prospetta di destinarne il 50 per cento del totale annuo alle specifiche attività di sensibilizzazione e di ispezione nonché di attuazione del Regolamento svolte dal Garante.

Lavoratori

Si propone di modificare la norma sanzionatoria prevedendo di eliminare dalla norma incriminatrice la violazione del comma 2 dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, considerato che questa disposizione, concernente gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze, risulta di carattere concessorio e non limitativo e pertanto dovrebbe essere espunto.

Norme penali

Per le fattispecie di trattamento illecito di dati, comunicazione e diffusione illecita di dati riferibili a un rilevante numero di persone e acquisizione fraudolenta di dati personali, le Commissioni chiedono di inserire, oltre alla finalità del profitto per sé o per altri, anche quella del danno all’interessato, al fine di evitare di affievolire la tutela contro fatti incresciosi come il «revenge porn» o lo «slut shaming», che dovrebbero al contrario essere oggetto di attenta tutela.

Il Parlamento chiede, poi, di ripristinare l’articolo 170 del codice della privacy sul delitto di inosservanza di provvedimenti del Garante.

Certificazioni

Il parere chiede di valutare l’opportunità di definire puntualmente la distinzione tra i ruoli svolti dall’ente nazionale di  accreditamento (Accredia) e l’autorità di supervisione (Garante), anche al fine di evitare sovrapposizioni, contenziosi e conflitti di interesse, precisando i criteri sulla base dei quali sono individuate dal Garante le categorie di trattamento in relazione alle quali il Garante stesso riserva a sé le funzioni di accreditamento, riservando a quest’ultimo le funzioni di accreditamento relative ai dati genetici, biometrici e relativi alla salute.

Composizione del Garante

Si chiede di valutare l’opportunità di introdurre una procedura di evidenza pubblica ai fini dell’acquisizione delle candidature a componente del Garante.

PMI

Si chiede di dare al Garante il potere di adottare linee guida di indirizzo riguardanti misure di organizzazione e tecniche di attuazione del Regolamento, tenendo conto delle esigenze di semplificazione di micro, piccole e medie imprese, anche in relazione al trattamento del personale. Sempre per avere un GDPR a misura di PMI si chiede di introdurre tra i criteri per la graduazione delle sanzioni la dimensione dell’impresa con particolare riguardo alle micro, piccole e medie imprese.

Si chiede anche di valutare l’opportunità di prevedere, compatibilmente con il rispetto dei principi e criteri direttivi della delega e con le previsioni del Regolamento (UE) 2016/679, un minimo edittale alle sanzioni previste dal nuovo Regolamento, anche ai fini dell’accesso all’oblazione.

Reati nuovi e sanzioni

Per le fattispecie penali di comunicazione e diffusione illecita dei dati personali riferibili a un rilevante numero di persone e di acquisizione fraudolenta di dati personali si chiede di essere più precisi e tassativi .

Il parere si chiude con la richiesta della valutazione della possibilità che il Garante, in una fase transitoria, in ogni caso non inferiore a 8 mesi, successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo, non irroghi sanzioni alle imprese, ma disponga ammonimenti o prescrizioni di adeguamento alla nuova disciplina, in base al principio di proporzionalità e di gradualità della sanzione, nonché ai principi dello small business act.

(Fonte IPSOA)

Tirocini e alternanza scuola-lavoro: obbligatori tutti gli adempimenti in materia di sicurezza.

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Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in risposta all’stanza di interpello n. 4 del 25 giugno 2018, presentato dalla Provincia Autonoma di Trento si è espresso riguardo l’applicazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro nei casi di tirocini formativi presso lavoratori autonomi non inquadrabili come datori di lavoro.

Si tratta di lavoratori autonomi, nello specifico i “Maestri artigiani”, non configurabili come datori di lavoro e dunque ordinariamente non soggetti alla disciplina vigente in materia di sicurezza del lavoro. L’istanza fa riferimento sia ai tirocini formativi che ai percorsi di alternanza scuola-lavoro.

Disciplina normativa in vigore

Il Ministero del Lavoro ricorda che la legge prevede che i percorsi in alternanza sono progettati, attuati, verificati e valutati sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di apposite convenzioni stipulate con:

  • le imprese;
  • le associazioni di rappresentanza;
  • le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
  • gli enti pubblici e privati, ivi inclusi quelli del terzo settore disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di apprendimento in situazione lavorativa, che non costituiscono rapporto individuale di lavoro.

Lo stesso Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, in data 1 ottobre 2012, ha precisato che al lavoratore è equiparato, ai fini dell’applicazione della normativa in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro, anche “chi svolge attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere nonché il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro”.

Conseguentemente, se in un’azienda o uno studio professionale, sono ammessi soggetti che svolgano stage o tirocini formativi, il datore di lavoro è tenuto ad osservare tutti gli obblighi previsti dal testo unico al fine di garantire la salute e la sicurezza degli stessi e, quindi, adempiere gli obblighi formativi connessi alla specifica attività svolta.

Le indicazioni del Ministero

Il dicastero richiama espressamente il decreto interministeriale n. 195 del 2017, che definisce la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuolalavoro e le relative modalità di applicazione della normativa per la tutela della salute e della sicurezza. Il testo normativo definisce espressamente le modalità di applicazione agli studenti in regime di alternanza scuola-lavoro delle disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Sulla base di tale presupposto, la Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro ritiene che tale disciplina si applichi anche ai percorsi condotti dagli studenti in regime di alternanza scuola – lavoro.

(Fonte IPSOA)

Non è licenziabile per giusta causa il lavoratore che si difende con espressioni offensive

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Una società contestava un’assenza ingiustificata ad un proprio dirigente, invitandolo a rendere i chiarimenti opportuni in merito. Questi, con una lettera di giustificazione, tuttavia formulava accuse e rivolgeva espressioni a contenuto offensivo ai propri superiori.

Alla luce di tale condotta, il datore di lavoro dapprima avanzava un’ulteriore lettera di contestazioni alla quale seguiva la richiesta del dirigente di essere sentito; poi, in secondo luogo a fronte dell’indisponibilità dell’interessato ad un ulteriore confronto, disponeva il recesso per giusta causa.

Il provvedimento era immediatamente impugnato e la domanda accolta parzialmente dal Tribunale. La decisione, tuttavia, non veniva confermata dalla Corte d’Appello, che giudicava legittimo il licenziamento e pienamente giustificato dalla condotta offensiva del lavoratore.

Avverso la suddetta decisione, ricorreva in Cassazione la difesa del dirigente per ottenerne la cassazione, sostenendo la legittimità del comportamento tenuto.

La decisione

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n.16590, depositata il 22 giugno 2018, ha accolto il ricorso presentato dal lavoratore.

In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che l’esercizio della difesa rientra all’interno dei diritti previsti e tutelati dalla Costituzione, nel caso di specie dall’art. 24 Cost. Questo, continua la Corte, consiste nell’adozione di un giudizio o di un’opinione a contenuto vario su cose o persone, che non deve rispondere ai requisiti di veridicità, continenza e pertinenza.

Inoltre il legislatore, per tutelare il suddetto diritto, ha disposto con l’art. 598 cp l’irrilevanza penale delle offese contenute negli scritti difensivi sottoposti alle autorità giudicanti.

I giudici della Corte, allineandosi ad un consolidato orientamento, puntualizzano che il diritto di difesa deve essere riconosciuto anche nell’ambito del procedimento disciplinare.

In ultimo, chiosa la Corte, la legittimità della difesa viene meno quando questa si concretizza in inadempimenti contrattuali oppure in azioni delittuose.

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza.

(Fonte IPSOA)

Piani di welfare: quando si possono dedurre i costi

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L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 5/E del 2018, è tornata – quasi incidentalmente – sul tema della deducibilità delle misure di welfare aziendale. I dubbi attengono, in particolare, la possibilità di dedurre i costi del welfare adottato attraverso il regolamento aziendale che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale. Le Entrate mancano l’opportunità di sciogliere i dubbi sorti tra gli operatori e, anzi, complicano l’interpretazione di alcune misure di welfare per le quali, fino alla pubblicazione della circolare, il regime di deducibilità appariva pacifico. Come orientarsi?

Il welfare aziendale costituisce un risparmio notevole per lavoratori e aziende consentendo al datore di lavoro di effettuare erogazioni sotto forma di benefits totalmente esenti a livello fiscale e previdenziale.

Deducibilità dei costi

Il tema della deducibilità dei costi derivanti dal Welfare aziendale è chiaramente di rilevante interesse per le aziende che rischierebbero, qualora questo non fosse possibile, di ridurre sensibilmente il risparmio “conquistato” grazie alla non imponibilità. Il problema si era già posto a seguito della circolare n. 28/E del 15/06/2016, vademecum per gli operatori sino al nuovo intervento dell’Agenzia delle Entrate, ed è stato amplificato con la recente circolare n. 5/E del 29/03/2018.

Cosa prevede il TUIR

È bene ricordare innanzitutto che il Welfare aziendale può essere introdotto dalle imprese sia attraverso il confronto sociale (passando quindi per il coinvolgimento dei sindacati col quale potrà inoltre essere contemplata l’istituzione di un sistema di Premi di Risultato), sia attraverso un riconoscimento volontario frutto di una decisione unilaterale del datore di lavoro.

L’art. 51, comma 2, lett. f) del TUIR stabilisce che non concorre a formare il reddito da lavoro dipendente l’utilizzazione delle opere e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, e offerti a categorie o alla generalità dei dipendenti, e ai loro familiari, per le finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto.

Il problema della deducibilità attiene proprio a tale tipologia di benefit. Con la circolare n. 26/E del 2016 l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto che, in base al combinato disposto degli artt. 95 e 100 del TUIR, da una parte vi sono le erogazioni unilaterali scaturite da una decisione puramente liberale dell’azienda i cui costi sono deducibili al 5 per mille secondo quanto previsto dall’art. 100 TUIR; dall’altra le erogazioni integralmente deducibili in quanto effettuate in conformità a contratto, accordo o regolamento che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale.

Mentre non sussiste alcun dubbio in merito al welfare introdotto da contratti o accordi sindacali, non è chiaro cosa si intenda per “regolamento che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale”.

Regolamento che configura adempimento di un obbligo negoziale

L’Agenzia delle Entrate non ha chiarito se il regolamento debba dar seguito ad un precedente atto bilaterale (pensiamo ad un accordo collettivo in cui le parti si limitano a prevedere l’obbligo per l’azienda di adottare un piano Welfare lasciando qualsiasi valutazione alla discrezione dell’imprenditore) o se esistono casi in cui in un regolamento “puro” possa essere ravvisato l’adempimento di un obbligo negoziale. Quest’ultima appare comunque l’unica interpretazione sensata in quanto, nel caso contrario di un regolamento attuativo di un accordo sindacale, il riferimento stesso al regolamento sarebbe stato superfluo.

Il problema, quindi, è come la natura di un regolamento, tipicamente atto unilaterale del datore di lavoro, possa configurarsi come adempimento di un obbligo negoziale anche in assenza di un vero dialogo tra le parti sociali.

La Direzione Regionale Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, con l’Interpello n. 954-1417/2016, ha fornito alcuni primi chiarimenti sostenendo che, qualora nel Regolamento venga esplicitata la facoltà del datore di lavoro di cessare unilateralmente e discrezionalmente l’implementazione e l’efficacia del piano Welfare al termine di ciascun anno di vigenza senza che da questo possa derivare alcun successivo obbligo nei confronti dei collaboratori, non può configurarsi alcun obbligo negoziale. Occorre rilevare tuttavia che, non potendosi ipotizzare un regolamento definitivo e permanente e che per i principi cardine del nostro ordinamento qualsiasi atto può essere cessato, rilevante sarà l’arco temporale nel quale permane l’obbligo per il datore di lavoro. In assenza di riferimenti normativi, tuttavia, molte sono le difficoltà operative.

Altre indicazioni sono state poi fornite dalla Direzione Regionale Lazio con Interpello n. 913-807/2017. Nel caso di specie il datore di lavoro si riservava di apportare variazioni, integrazioni o modifiche al regolamento in corso di validità. L’Agenza delle Entrate regionale, quindi, rilevava giustamente come l’arbitrarietà del datore di lavoro faceva venire meno l’obbligo negoziale.

La Circolare n. 5/E del 2018

Con l’ultimo intervento, l’Agenzia delle Entrate procede innanzitutto estendendo la portata del dubbio interpretativo anche ad altre misure di Welfare. Non più solo opere e servizi con finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto: la piena deducibilità viene messa in dubbio anche per altri benefit che, secondo l’interpretazione dell’Amministrazione, costituiscono una specificazione degli oneri di utilità sociale indicati alla lett. f):

  • Rimborsi e servizi per i servizi di educazione e istruzione in favore dei familiari
  • Rimborsi e servizi per la fruizione dei servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti
  • Contributi e premi, anche in forma assicurativa, aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza.

L’Amministrazione finanziaria torna poi ad individuare due tipologie di welfare aziendale: quello riconosciuto a seguito di un confronto con i sindacati e quello frutto della decisione volontaria del datore di lavoro. Dal tenore letterale della circolare, i regolamenti che configurano adempimento di un obbligo negoziale sembrerebbero, questa volta, essere inseriti tra i benefit erogati volontariamente con deducibilità limitata quindi al 5 per mille.

L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, non si esprime chiaramente sul punto. Una tale modifica interpretativa avrebbe infatti richiesto una maggiore chiarezza espositiva al fine di non lasciare alcun dubbio agli operatori. L’Amministrazione finanziaria, invece, non solo accenna frettolosamente al regolamento, ma richiama inoltre la sua precedente circolare dove, ricordiamo, sosteneva la piena deducibilità del Welfare nel caso in cui l’atto datoriale configuri l’adempimento di un obbligo negoziale.

È chiaro come il tema non sia di poco conto considerando che tutte le misure di welfare aziendale più “appetibili” per le aziende rischierebbero di non essere pienamente deducibili senza accordo sindacale: rimborsi spese per le rette scolastiche, per badanti o case di cura, viaggi, abbonamenti in palestra, corsi di lingua…. è evidente che un intervento chiarificatore dell’Agenzia delle Entrate sarebbe necessario per fugare ogni dubbio.

Conclusioni

In attesa di un tale intervento si ritiene ancora valida l’interpretazione secondo cui un regolamento nel quale il datore di lavoro si impegna a non modificare il piano welfare (se non con interventi migliorativi) per un certo arco di tempo, ad esempio due o tre anni, potrà essere espressione di un obbligo negoziale e garantire dunque la piena deducibilità del welfare.

TFR in busta paga ai titoli di coda. In scadenza il periodo sperimentale

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I dipendenti del settore privato con contratto di lavoro subordinato possono richiedere l’erogazione mensile in busta paga del TFR a partire dal 1° marzo 2015 e fino al 30 giugno 2018 (articolo 1, commi 26 e seguenti della legge di stabilità per il 2015 -legge 23 dicembre 2014, n. 190).

La quota di TFR che maturerà nel periodo di paga di giugno 2018, determinata secondo il criterio della competenza, sarà dunque l’ultima ad essere liquidata nella busta paga mensile, a meno che il neonato Governo non preveda la proroga di questa misura sperimentale o la sua riconferma in versione strutturale.

La QUiR in verità non ha ottenuto il successo auspicato dal Legislatore che – nel 2015 – era intento a ridurre il cosiddetto “cuneo fiscale” sia dal lato dei costi aziendali (gli esoneri contributivi triennali e biennali per le assunzioni a tempo indeterminato erano chiari esempi di questo proposito) che dal lato del “netto in busta” percepito dal lavoratore (e su quest’ultimo versante anche il bonus IRPEF introdotto dal D.L. 66/2014).

La liquidazione del TFR mensile in busta paga è una misura che ha seguito la traccia del medesimo solco: senza agire dal lato della retribuzione (con indesiderati aumenti a carico delle imprese) e senza gravare ulteriormente sulle casse dello Stato, l’unica residua strada percorribile era rappresentata dall’utilizzo immediato della retribuzione differita: soluzione di effetto e che non pone ulteriori oneri a carico delle parti in causa.

Il TFR però svolge storicamente una funzione sociale ben radicata nella tradizione italiana: esso consiste in un capitale erogato a fine rapporto che consente al lavoratore ed alla sua famiglia di affrontare in maniera più serena i periodi di non lavoro o del meritato riposo a fine carriera. E’ quindi assolutamente necessario che la QUiR sia attivata a richiesta del lavoratore il quale, con una scelta consapevole, opera in questo modo uno scambio fra presente e futuro o, per dirla con la secolare saggezza di Esopo, compie una scelta fra il comportamento della cicala e quello della formica.

L’immediata disponibilità economica ottenuta è finalizzata, nelle intenzioni degli estensori della norma, anche al rilancio dei consumi privati e a fornire un contributo diretto alla crescita dell’economia italiana in termini di punti del PIL.

L’operazione, valutata nel complesso del panorama normativo italiano, offre però all’osservatore anche una nota stonata, in quanto le sue finalità sono rivolte in direzione contraria ed opposta rispetto ad un’altra misura che anch’essa mira ad utilizzare il TFR come retribuzione differita: la riforma della previdenza complementare operata dal D.Lgs n. 252/2005, che mira alla costituzione del “secondo pilastro” pensionistico mediante il versamento del TFR maturando e di eventuali quote aggiuntive di retribuzione corrente.

Da questo punto di vista non si può che evidenziare che i due messaggi, una volta giunti all’attenzione dei lavoratori, mirano ad ottenere effetti opposti, di cui il secondo (la previdenza complementare) è, a nostro parere, portatore di valori etici sicuramente più nobili e condivisibili rispetto al primo (l’aumento dei consumi e della disponibilità finanziaria immediata del lavoratore).

La struttura normativa realizzata nel 2015 era particolarmente ricca di dettagli operativi tanto da apparire persino complessa, come nella descrizione delle condizioni richieste al datore di lavoro in carenza di liquidità per ottenere il finanziamento garantito dallo Stato.

La procedura di gestione della Qu.I.R ha inizio con la richiesta esplicita del lavoratore, a condizione che abbia maturato almeno 6 mesi di anzianità di servizio presso il datore di lavoro, da formalizzare per mezzo dell’apposito modello allegato al DPCM 20 febbraio 2015 n. 29.

Tale possibilità è prevista sia per coloro che hanno mantenuto il TFR in azienda, che per coloro che lo hanno destinato alla previdenza complementare o al Fondo di Tesoreria.

Una volta ricevuta l’istanza del lavoratore debitamente compilata e sottoscritta, il datore di lavoro rilascia al lavoratore una copia controfirmata, ovvero un’attestazione di ricevimento in formato elettronico.

La quota mensile di TFR è determinata sulla base delle disposizioni dell’articolo 2120 del codice civile, al netto del contributo aggiuntivo IVS dello 0,50% a carico del lavoratore, quando dovuto.

A decorrere dal mese successivo a quello della richiesta effettuata attraverso la presentazione dell’istanza, o entro il terzo mese successivo a quello di competenza in caso di azienda con meno di 50 dipendenti che richieda il finanziamento assistito dalla garanzia INPS, il datore di lavoro eroga la quota di TFR maturata mensilmente e dunque ne sospende l’accantonamento e la rivalutazione, se in regime di articolo 2120 del codice civile, o il versamento al Fondo pensione o al Fondo di Tesoreria INPS.

Il legislatore ha posto molta attenzione anche agli effetti indiretti della liquidazione del TFR in busta paga, prevedendo ad esempio la “neutralizzazione” degli effetti dell’incremento del reddito imponibile sul bonus IRPEF ed evidenziando che, nonostante abbia perso la caratteristica di retribuzione differita, la Qu.I.R. conserva comunque la sua natura non imponibile ai fini contributivi.

Ad onor del vero, non tutti gli effetti indesiderati sono stati evitati: l’applicazione della tassazione ordinaria ad esempio può determinare una imposta lorda maggiore rispetto a quella che sarebbe calcolata con la tassazione separata e nemmeno le detrazioni spettanti al lavoratore subordinato possono ovviare all’effetto indesiderato, anche loro soggette ad una diminuzione a causa dell’aumento del reddito complessivo presente nelle formule di calcolo.

Luci e ombre dunque sono riassumibili nella tabella sottostante che riepiloga le caratteristiche gestionali della busta paga e della elaborazione dei contributi:

Effetto della Qu.I.R. sulle variabili in busta paga

  • Regime contributivo: Non imponibile
  • Regime fiscale: Tassazione ordinaria
  • Bonus Irpef DL 66/2014: Non rilevante ai fini dei limiti reddituali
  • Detrazioni fiscali: Rilevante ai fini reddituali
  • Addizionali regionali e comunali: Rilevante ai fini reddituali
  • Assegni per il Nucleo Familiare: Rilevante ai fini dei limiti reddituali
  • Trattamento di Fine Rapporto: Non utile ai fini della maturazione
  • ISEE: Rilevante ai fini reddituali

Misure compensative per i datori di lavoro

  • Fondo di garanzia del TFR: Esonero dal contributo dello 0,20%
  • Contributoprestazioni temporanee: Esonero dal contributo dello 0,28%
  • Deducibilità dal reddito d’impresa: 4% del TFR liquidato (6% per le imprese con meno di 50 addetti)

Finanziamento agevolato per i datori di lavoro in crisi di liquidità

Per far fronte agli oneri derivanti dall’erogazione diretta in busta paga del TFR, le aziende con meno di 50 dipendenti possono accedere a forme di finanziamento agevolato garantite dall’INPS.

In questo caso, il datore di lavoro è tenuto al versamento di un contributo aggiuntivo al Fondo di garanzia per l’accesso ai finanziamenti istituito presso l’INPS pari allo 0,20% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dei lavoratori per i quali i datori di lavoro utilizzano il finanziamento assistito da garanzia.

In materia di lavoro, sul tavolo del Governo sono presenti fascicoli molto impegnativi dal punto di vista della realizzazione e della copertura finanziaria ed è probabile che il tema legato alla eventuale proroga della Qu.I.R. passi in secondo piano. Tenuto conto inoltre che il promotore della misura in argomento è in questo momento all’opposizione, a meno che non accadano colpi di scena sempre possibili, dal periodo di paga di luglio i cedolini dei lavoratori attualmente soggetti alla QUiR torneranno dunque ad essere gestiti in maniera ordinaria.

In modo particolare, ai fini del TFR riprenderanno le operazioni consuete: l’accantonamento presso il fondo TFR aziendale delle quote maturate mese per mese, il versamento ai fondi di previdenza complementare per i lavoratori aderenti ed il versamento al fondo di Tesoreria per le aziende obbligate.

(Fonte IPSOA)

Incentivi all’assunzione: nuova funzionalità Anpal per verificare quando spettano

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Come sapere se una persona può essere assunta con incentivi? Per verificarlo Anpal ha messo a disposizione sul proprio portale istituzionale la nuova funzionalità “Incentivabilità” che consente, appunto, la verifica della sussistenza dei requisiti per gli incentivi all’assunzione con riferimento ai lavoratori c.d. svantaggiati. L’utility è a disposizione dei centri per l’impiego, degli operatori iscritti all’albo informatico delle agenzie per il lavoro, dei soggetti iscritti all’albo nazionale dei soggetti accreditati ai servizi per il lavoro e dei cittadini stessi.

L’ANPAL ha reso disponibile, a partire dall’8 giugno 2018, una nuova funzionalità, nella sezione ad accesso riservato, denominata “Incentivabilità” che consente di verificare se un soggetto è in possesso del requisito di lavoratore “svantaggiato” e se, quindi, all’azienda possano essere riconosciuti gli incentivi all’assunzione.

Sono incentivabili le assunzioni di persone che nei 6 mesi antecedenti alla data in cui si effettua la richiesta:

  • non hanno avuto rapporti di lavoro subordinato;
  • hanno avuto rapporti di lavoro conclusi e di durata non superiore a sei mesi;
  • hanno svolto attività di lavoro autonomo o parasubordinato da cui derivi un reddito inferiore al reddito annuale minimo escluso da imposizione

Il servizio è a disposizione dei soggetti autenticati a titolo di:

  • centri per l’impiego;
  • operatori iscritti all’albo informatico delle agenzie per il lavoro;
  • soggetti iscritti all’albo nazionale dei soggetti accreditati ai servizi per il lavoro;
  • cittadini.

La funzionalità effettua la verifica sulla base dei dati risultanti dalle comunicazioni obbligatorie (UNILAV) senza tenere conto di eventuali peridi di lavoro autonomo svolti.

(Fonte IPSOA)

Assegno di ricollocazione: percorso ad ostacoli, ma con vantaggi per aziende e lavoratori

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ANPAL e Ministero del lavoro, con la circolare n. 11 del 2018, hanno fornito indicazioni sull’accordo di ricollocazione, fissando i criteri e le modalità di accesso per aziende e lavoratori. L’assegno di ricollocazione è, nella sostanza, un voucher, non soggetto ad IRPEF ed a contribuzione previdenziale, graduato in funzione del profilo personale di occupabilità e spendibile presso i Centri per l’impiego o le Agenzie del Lavoro e gli altri Enti accreditati. E’ finalizzato ad ottenere un servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un lavoro. Quanto dura il servizio? Quali sono i vantaggi per i datori di lavoro?

Con la circolare congiunta n. 11 del 7 giugno 2018 di Ministero del Lavoro ed ANPAL – a firma di tre Direttori Generali e con il parere positivo dell’Ufficio Legislativo – sono state dettate le disposizioni operative sull’assegno di ricollocazione e che forniscono, nella sostanza, piena applicazione alla previsione contenuta nell’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015, introdotto con la legge di Bilancio 2018. Al fine di evitare possibili equivoci va sottolineato come la circolare congiunta n. 11 venga riportata sul sito dell’ANPAL con il n. 2 (evidentemente, si fa riferimento soltanto alla progressione numerica delle loro circolari emanate nel 2018).

Con l’art. 24-bis viene estesa, a determinate condizioni, ai lavoratori delle imprese in integrazione salariale straordinaria per riorganizzazione o per crisi aziendale con continuazione dell’attività, la possibilità di poter usufruire del percorso di ricollocazione già pensato per i lavoratori disoccupati.

Per limitare il ricorso ai licenziamenti collettivi, e per favorire strumenti di politica attiva, nel corso dell’esame congiunto ex art. 24 per l’intervento straordinario di cassa integrazione finalizzato ad una riorganizzazione aziendale (massimo 24 mesi) o ad attutire gli effetti di una crisi (massimo 12 mesi), laddove si ritenga che non ci siano gli estremi per un completo recupero occupazionale, le parti, possono sottoscrivere un accordo finalizzato alla ricollocazione del personale che si ritiene eccedentario: ovviamente, non vanno indicati i nominativi ma, unicamente, i reparti o le aree, i profili professionali ed il numero complessivo. L’accordo può prevedere una partecipazione attiva sia dei Centri per l’impiego che delle Agenzie del Lavoro e degli altri Enti accreditati finalizzata al mantenimento ed allo sviluppo delle competenze dei lavoratori interessati attraverso corsi di formazione professionale da effettuare anche attingendo al concorso dei fondi interprofessionali previsti dall’art. 118 della legge n. 388/2000.

Cosa dice la circolare di ANPAL e Ministero del lavoro

La circolare n. 11 precisa che:

a) il contratto di solidarietà è escluso dall’accordo di ricollocazione (e, d’altra parte, non viene citato nell’art. 24-bis)

b) il verbale di consultazione sindacale ex art. 24 (non necessariamente di accordo) deve riportare al proprio interno, in una sezione coerente con il modello allegato alla circolare, l’accordo ove le parti hanno definito il piano di ricollocazione. Il format predisposto contiene i dati di identificazione dell’impresa, la causale di CIGS, il periodo di richiesta, il numero massimo dei lavoratori interessati ed i profili distinti secondo il codice ISTAT

c) in fase di prima applicazione, e fino al 30 settembre 2018, la nota ministeriale ritiene che l’accordo di ricollocazione possa ben essere distinto e temporalmente successivo rispetto al verbale di consultazione. Ad avviso di chi scrive, quindi, qualora un’impresa fosse ammessa allo “sforamento” del periodo massimo di CIGS come previsto dall’art. 22-bis, l’accordo potrebbe avvenire in sede Ministeriale con la sottoscrizione del verbale previsto dal citato articolo: ciò appare in linea con la previsione della circolare n. 11 ove si afferma che le parti debbono riattivare il confronto presso le sedi istituzionali competenti (Ministero del Lavoro o Regione)

d) l’accordo di ricollocazione deve essere trasmesso, con modalità informatiche, a cura del datore di lavoro, entro sette giorni dalla stipula, all’ANPAL.

Da quanto appena detto discende un’osservazione: l’accordo che individua le eccedenze va sottoscritto durante la procedura di esame congiunto e “non” durante la fruizione dell’intervento integrativo straordinario, fatta eccezione per la “fase transitoria” identificata fino al 30 settembre 2018. Si ricorda che, ai sensi del comma 5, dell’art. 24 l’intera procedura di consultazione che si può svolgere anche presso l’ufficio individuato dalla Regione, si esaurisce entro i 25 giorni successivi a quello in cui è stata attivata la richiesta: essi si riducono a 10 qualora l’impresa occupi fino a 50 dipendenti.

Procedura di richiesta

Ma, quali sono i passaggi ulteriori finalizzati all’ottenimento dell’assegno di ricollocazione?

Una volta sottoscritto l’accordo, i lavoratori ricompresi in tali ambiti, possono chiedere all’ANPAL, accedendovi telematicamente, nei 30 giorni successivi (termine che appare perentorio), l’attribuzione anticipata dell’assegno di ricollocazione, nei limiti ed alle condizioni correlati ai programmi di riorganizzazione o di crisi. Il numero delle richiesteall’ANPAL non può eccedere il contingente complessivo previsto nell’accordo sopra citato, anche in relazione agli ambiti ed ai profili: le istanze sono prese in considerazione seguendo l’ordine cronologico di presentazione.

Una considerazione da effettuare riguarda la scelta, volontaria, dei soggetti interessati. Non si tratta di una scelta semplice anche perché le situazioni possono essere del tutto diverse: appare chiaro che la strada della ricollocazione potrebbe essere quella privilegiata da chi, ancora, per età, per qualifica e per necessità, è destinato a rimanere in attività, mentre, altri lavoratori che hanno, ad esempio, i requisiti per l’APE sociale o per quella aziendale, o perché si trovano nelle condizioni, proposte dal datore di lavoro, di accedere al prepensionamento, attivato da qualche fondo di categoria, o a quello ex art. 4, commi da 1 a 7-ter della legge n. 92/2012 (abbastanza oneroso per l’impresa), potrebbero fare scelte diverse, magari “corroborate” da un incentivo economico.

Caratteristiche dell’assegno

L’assegno di ricollocazione è, nella sostanza, un voucher, non soggetto ad IRPEF ed a contribuzione previdenziale, graduato in funzione del profilo personale di occupabilità e spendibile presso i Centri per l’impiego o le Agenzie del Lavoro e gli altri Enti accreditati (scelti dai soggetti interessati): tutto ciò è finalizzato ad ottenere un servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un lavoro. La circolare n. 11 richiama, sotto l’aspetto prettamente operativo, la delibera dell’ANPAL n. 14 del 18 aprile 2018.

Ma quanto dura il servizio intensivo di assistenza nella ricerca di un lavoro da parte del centro per l’impiego o dell’Agenzia del Lavoro prescelta? Non meno di 6 mesi, ricorda la circolare n. 11 e, comunque, per un periodo massimo corrispondente a quello richiesto (e concesso) di integrazione salariale. Tale periodo può essere prorogato, per un massimo di 12 mesi, qualora non sia stato consumato l’intero importo dell’assegno: tutto questo, però, postula un accordo tra il lavoratore interessato e l’Ente o l’Agenzia che eroga il servizio. Il programma di ricollocazione segue la strada individuata dall’art. 22, comma 2, del D.L.vo n. 150/2015 e può essere stipulato anche dopo aver sentito il datore di lavoro.

Lo svolgimento del programma non deve interferire con l’attività lavorativa del lavoratore in CIGS (dal 24 settembre 2017 le ore integrabili, intese sul numero complessivo dei lavoratori interessati, non possono superare la percentuale dell’80%): ciò significa che sia le convocazioni che le iniziative di politica attiva proposte debbono avvenire al di fuori dell’orario di lavoro.

Altra novità rispetto alla normativa generale riguarda l’art. 25 del D.L.vo n. 150/2015: i lavoratori cassaintegrati non sono tenuti ad accettare un’offerta di lavoro congrua.

La circolare n. 11 sottolinea che il rifiuto non incide sul trattamento di integrazione salariale percepita. La differenza con i disoccupati inseriti nei percorsi di ricollocazione appare, sul punto, evidente in quanto il rifiuto dell’offerta congrua (definita, come tale, secondo principi fissati in una apposita delibera dell’ANPAL) ha effetti “condizionanti” sul trattamento di NASpI o di DIS-COLL percepito.

Come avviene la ricollocazione?

L’offerta di lavoro presentata dal Centro per l’impiego, dall’Agenzia o da altro Ente che supporta il lavoratore, non deve, ovviamente, pervenire da un’impresa che presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore di lavoro cedente (nella sostanza, non ci deve essere un rapporto di collegamento e controllo ex art. 2359 c.c. o un riferimento allo stesso proprietario, anche per interposta persona): giustamente, si vuole evitare, nei limiti del possibile, il “gioco delle tre carte” con un arricchimento indebito di alcuni soggetti che operano ai margini della legalità normativa.

Se l’offerta di lavoro viene accettata, il lavoratore beneficia di un vantaggio che ricorda, per certi versi, sia pure alla lontana, quello previsto dall’offerta conciliativa facoltativa ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, in caso di accettazione del licenziamento.

Il lavoratore, a fronte della cessazione del rapporto dal precedente datore, ottiene una esenzione dall’IRPEF sulle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro (nella sostanza, le erogazioni intese come “incentivi all’esodo”) fino ad un massimo di 9 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR: ovviamente, le ulteriori somme sono soggette al normale regime fiscale. La circolare n. 11 si limita a riportare il dettato normativo e non chiarisce, esplicitamente, che le somme esenti da IRPEF sono soltanto quelle legate all’esodo incentivato.

In aggiunta a quanto appena detto, il lavoratore ottiene un contributo mensile pari al 50% del trattamento di CIGS non ancora corrisposto in relazione alle mensilità di “fruizione” mancanti.

La circolare n. 11 chiarisce che l’importo spettante all’interessato dovrà essere calcolato applicando al periodo residuo del programma di CIGS in corso, la percentuale delle ore integrate mediamente osservata nel periodo di fruizione.

Un consiglio appare necessario, pur se la circolare n. 11 non ne parla: è opportuno corrispondere le competenze di fine rapporto in “sede protetta” (art. 410 cpc, art. 411 cpc) per i riflessi legati al mancato pagamento dell’IRPEF rispetto alla quantificazione della somma complessiva esente: tale passaggio, previsto esplicitamente per l’offerta conciliativa ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, non è stato ipotizzato, ma potrebbe essere necessario anche in una logica di correttezza e di verifica relativa alle somme esenti fiscalmente, che potrebbero essere sindacate, in un momento successivo, dall’Agenzia delle Entrate.

Altre questioni non trattate nella circolare

Qui, ad avviso di chi scrive, si pongono ulteriori questioni, non affrontate nella circolare n. 11.

La prima riguarda le modalità di risoluzione del rapporto di lavoro. Se il dipendente in integrazione salariale risolverà consensualmente il rapporto o darà le proprie dimissioni, ciò dovrà essere effettuato attraverso la procedura telematicarichiamata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015, a meno che la risoluzione non avvenga in sede di conciliazione ex art. 410 e 411 cpc, o secondo l’iter specifico previsto per le donne in “periodo protetto”.

Se, invece, formalmente, si procederà con un licenziamento, il datore di lavoro dovrà versare il “ticket licenziamento” (sicuramente, non maggiorato, in quanto non avvenuto al termine di una procedura collettiva): tale obbligo sussiste in quanto non è applicabile l’esimente prevista dal comma 34 dell’art. 2 della legge n. 92/2012 che riguarda soltanto i licenziamenti nei cambi di appalto seguiti dalle successive assunzioni in ottemperanza di clausole sociali e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato in edilizia motivati dal completamento dell’attività o dalla chiusura del cantiere.

Quali sono i vantaggi contributivi per il datore di lavoro che assume?

I vantaggi contributivi per i datori di lavoro consistono nell’esonero del 50% dei complessivi contributi previdenziali ed assistenziali, con esclusione dei premi e dei contributi dovuti all’INAIL, nel limite massimo di 4.030 euro annui, rivalutati annualmente in base all’indice ISTAT per 18 mesi nel caso in cui l’assunzione avvenga a tempo indeterminato e per 12 mesi qualora l’instaurazione del rapporto avvenga a termine. Se il contratto a tempo determinato si trasforma, il beneficio viene riconosciuto per altri 6 mesi fino a giungere ai complessivi 18 mesi.

Sarà, senz’altro, l’INPS, al momento opportuno, a fornire le indicazioni amministrative finalizzate al “godimento” delle agevolazioni, pur se la dizione adoperata ricopia, pedissequamente, precedenti disposizioni, per cui, ad esempio, si può pensare che debbano essere comunque pagati i contributi relativi ad alcune voci, riassunte, ad esempio, dalla circolare n. 57/2016:

  • i premi e contributi INAIL
  • i contributi, se dovuti, al Fondo per l’erogazione del TFR
  • i contributi, se dovuti, ai Fondi bilaterali per l’integrazione salariale o a quello di integrazione salariale (D.L. vo n. 148/2015)
  • lo 0,30% previsto dall’art. 25, comma 4, della legge n. 845/1978 per i datori che aderiscono ai fondi interprofessionali
  • il contributo di solidarietà per la previdenza complementare ed i fondi di assistenza sanitaria (ex lege n. 166/1991)
  • il contributo di solidarietà per i lavoratori dello spettacolo e quello per gli sportivi professionisti (D.L. vo n. 166/1997).

Tale agevolazione contributiva, ricorrendone le condizioni, sarà cumulabile con altri beneficierogati dall’Istituto, sulla base di specifiche norme e sarà corrisposta pur in presenza di qualche situazione ostativa richiamata dall’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015? La risposta, in attesa di chiarimenti specifici dell’INPS, è per l’incumulabilità e per il rispetto delle condizioni previste dall’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015 e dell’art. 1, commi 1175 e 1176 della legge n. 296/2006.

L’agevolazione contributiva per un massimo di 12 (se l’assunzione è a termine) o 18 mesi (se il rapporto è a tempo indeterminato) ricorda, molto da vicino, una che esiste nel nostro ordinamento sin dal 1993: ci si riferisce all’art. 4, comma 3, del D.L. n. 148/1993, convertito, con modificazioni, nella legge n. 236, ove l’assunzione a tempo indeterminato di un cassaintegrato da almeno 3 mesi, anche non continuativi (con l’azienda che sta beneficiando del trattamento integrativo da almeno 6 mesi) viene “premiata” con una contribuzione ridotta (10%) per 12 mesi pari a quella stabilita, in via ordinaria, per gli apprendisti, ferma restando quella a carico del lavoratore.

Il beneficio economico ulteriore pari al 50% dell’indennità di mobilità è venuto meno con la fine di quest’ultima, a partire dal 1° gennaio 2017.

(Fonte IPSOA)

Pari opportunità sul lavoro: intensificata l’attività ispettiva

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La sottoscrizione del Protocollo d’intesa in materia di pari opportunità, siglato il 6 giugno tra l’Ispettorato Nazionale del Lavoro e la Consigliera Nazionale di Parità, rappresenta un nuovo passo avanti nel contrasto alle discriminazioni di genere nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato. Cresce l’impegno delle due istituzioni attraverso la promozione di eventi formativi, lo scambio di informazioni e la programmazione di accessi ispettivi mirati.

E’ stato sottoscritto, in data 6 giugno 2018, il Protocollo d’intesa tra il Capo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e la Consigliera Nazionale di Parità. Nell’espletamento delle funzioni istituzionali, le parti si impegnano a dare nuovo impulso alla già consolidata collaborazione per consentire la piena applicazione della normativa in materia di parità e di pari opportunità tra uomo e donna e ad attivare efficaci azioni di contrasto alle discriminazioni di genere, con particolare riferimento al ruolo genitoriale di lavoratori e lavoratrici.

Azioni di collaborazione

L’Ispettorato nazionale del Lavoro si impegna a sensibilizzare le proprie sedi territoriali al fine di garantire la costante attuazione delle seguenti forme di collaborazione:

  • comunicazione tempestiva, nei rispettivi ambiti regionali e provinciali, alle Consigliere di parità di eventuali situazioni discriminatorie di genere, anche collettive, riscontrate durante le ispezioni effettuate ovvero di cui gli Uffici siano venuti a conoscenza tramite l’URP o mediante apposita segnalazione;
  • trasmissione di informazioni ai competenti Consiglieri di parità sugli squilibri nella posizione tra uomini e donne riscontrati in azienda, nel corso delle ispezioni e su ogni altra questione di comune interesse

La consigliera Nazionale di parità, si impegna a segnalare alle sedi competenti dell’Ispettorato le violazioni delle norme antidiscriminatorie nonché di quelle volte a disciplinare il rapporto di lavoro, di cui siano venute e a conoscenza in occasione dello svolgimento del proprio mandato.

Le parti collaborano, inoltre, nell’analisi dei dati e nella redazione del Rapporto annuale sulle convalide delle dimissioni o risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri.

Pianificazione degli accessi ispettivi

L’Ispettorato nazionale del lavoro esaminerà tempestivamente le richieste di intervento presentate dalle Consigliere di parità recanti le indicazioni necessarie all’effettuazione degli accertamenti di competenza del personale ispettivo. Sarà di conseguenza valutata l’opportunità di programmare verifiche ispettive in merito, compatibilmente con la pianificazione ordinaria della vigilanza nel rispettivo ambito geografico.

Attività formative

Le parti si impegnano a promuovere momenti di approfondimento e studio che coinvolgano il proprio personale nonchè quello della Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali allo scopo di rafforzare competenze, conoscenze e metodologie di intervento e di valutazione nell’ambito delle azioni antidiscriminatorie e di tutela e promozione della parità e pari opportunità nei luoghi di lavoro.

(Fonte IPSOA)

Modello 770/2018: trasmissione alle Entrate in uno o più flussi

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Entro il prossimo 31 ottobre i sostituti d’imposta devono trasmettere telematicamente il modello 770/2018. A tal fine l’Agenzia delle Entrate, nell’ambito della piattaforma “Desktop Telematico”, ha reso disponibile, per le applicazioni “Entratel” e “File Internet”, la versione 1.0.0 del 22 maggio 2018 relativa al modulo Controlli Dichiarazioni 770 2018. Anche quest’anno il modello può essere presentato diviso in più flussi (massimo 3), a condizione che siano state trasmesse alle Entrate tutte le certificazioni relative ai redditi di lavoro subordinato, autonomo e, se dovute, di capitale. Quali sono gli altri limiti?

Dal 22 maggio 2018 è possibile trasmettere telematicamente il modello 770/2018 che deve essere presentata entro il prossimo 31 ottobre da tutti coloro che, a diverso titolo, hanno effettuato ritenute su redditi e proventi erogati a terzi.

A tal fine, nell’ambito della piattaforma “Desktop Telematico” è disponibile, per le applicazioni “Entratel” e “File Internet”, all’interno della categoria Controlli dichiarazioni dei redditi e studi di settore 2018 la versione 1.0.0 del 22/05/2018 relativa al modulo Controlli Dichiarazioni 770 2018 (codice fornitura: 77018).

Come presentare il modello

Anche quest’anno il modello può essere presentato diviso inviando, oltre al frontespizio, i quadri ST, SV, SX relativi alle ritenute operate su:

  • Redditi di lavoro dipendente ed assimilati
  • Redditi di lavoro autonomo, provvigioni e redditi diversi
  • Dividendi, proventi e redditi di capitale, ricomprendendo le ritenute su pagamenti relativi a bonifici disposti per il recupero del patrimonio edilizio e per interventi di risparmio energetico (art. 25 del D.L. n. 78 del 31 maggio 2010), già presenti nel quadro SY
  • Locazioni brevi inserite all’interno della CU (articolo 4, del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 2017, n. 96)
  • Somme liquidate a seguito di pignoramento presso terzi (art. 21, comma 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, come modificato dall’art. 15, comma 2, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102) e somme liquidate a titolo di indennità di esproprio e di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi, nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizioni coattive conseguenti ad occupazioni d’urgenza.

Trasmissione all’Agenzia delle Entrate

Il modello può essere suddiviso in un massimo di 3 flussi, fermo restando che ciò è possibile solo a condizione che entro il 7 marzo 2018 (ovvero il 31 ottobre 2018) siano state trasmesse all’Agenzia delle Entrate tutte le certificazioni relative ai redditi di lavoro subordinato, autonomo e, se dovute, di capitale.

Vi sono, inoltre, alcuni vincoli:

– in presenza del flusso “redditi di lavoro autonomo”, il flusso “locazioni” deve essere unito a questo. Avvertono pertanto le “istruzioni” che qualora il sostituto che abbia effettuato ritenute su redditi di lavoro dipendente, lavoro autonomo e locazioni brevi, il modello 770 può essere inviato in un massimo di due flussi:

1) Redditi di lavoro dipendente;

2) Redditi di lavoro autonomo e locazioni brevi.

Nel caso, invece, in cui il sostituto non abbia operato ritenute su redditi di lavoro autonomo il modello 770 può essere inviato in un unico flusso ovvero nel caso di invio separato con due flussi:

1) Redditi di lavoro dipendente

2) Locazioni brevi.

– Nel caso di invio separato del modello, il flusso “altre ritenute” va necessariamente unito ad uno dei tre flussi principali: “dipendente”, “autonomo” e “capitale”, premesso che questa voce comprende le ritenute sui pignoramenti e le ritenute sulle indennità di esproprio.

Scelta delle modalità di invio

La modalità di trasmissione scelta è segnalata indicando nella sezione “redazione della dichiarazione” l’apposito codice 1 o 2, che stanno a significare, rispettivamente, l’opzione per un unico flusso contenente i dati riferiti ai diversi redditi gestiti nel modello 770/2018 o la volontà di inviare separatamente i relativi dati. Torna peraltro, l’obbligo di indicare nell’apposito spazio “ gestione separata” il codice fiscale del/dei soggetti che trasmettono l’altra o le altre parti della dichiarazione, barrando la casella o le caselle inerenti alle tipologie reddituali che saranno trasmesse dall’altro soggetto incaricato.

(Fonte IPSOA)

Accordi conciliativi in materia di lavoro: quali somme non possono più essere pagate in contanti?

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Dal 1° luglio 2018 le aziende non potranno più pagare le retribuzioni in contanti. L’obbligo di tracciabilità si estende anche alle ipotesi in cui le retribuzioni ed i compensi vengano erogati a seguito di un accordo conciliativo tra datore di lavoro e lavoratore (anche postumo alla cessazione del rapporto di lavoro) stipulato presso le sedi “istituzionali” previste. Saranno i funzionari/giudici preposti alla redazione dell’atto conciliativo a scindere le somme erogate a titolo retributivo dalle altre corrisposte per finalità diverse. In attesa delle specifiche indicazioni dell’Ispettorato nazionale del lavoro, come fare ad identificare le somme soggette all’obbligo di tracciabilità?

Da luglio 2018 scatta il divieto di pagare le retribuzioni per mezzo di denaro contante. Detto divieto, previsto dall’articolo 910 e ss., della legge di Bilancio 2018 (legge n. 205 del 27 dicembre 2017), riguarda tutte le tipologie contrattuali di lavoro subordinato, indipendentemente dalla brevità del rapporto di lavoro.
Parliamo dei rapporti di lavoro subordinati a tempo indeterminato, determinato, intermittente, somministrazione (da parte dell’Agenzia per il lavoro al lavoratore), apprendistato ed i soci di cooperativa (ai sensi della legge 3 aprile 2001, n. 142).

Inoltre, la disposizione estende il divieto anche ai compensi erogati ai collaboratori coordinati e continuativi (disciplinati ai sensi dell’articolo 409 c.p.c. e dell’articolo 2, del decreto legislativo n. 81/2015).

Vengono fatte salve le retribuzioni erogate nei rapporti di lavoro instaurati con le Pubbliche Amministrazioni (di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) e nei rapporti di lavoro domestico; anche se in questi casi, comunque, va rispettata la normativa generale (articolo 49, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del 21 novembre 2007) che prevede il divieto al trasferimento di denaro contante qualora sia di importo pari o superiore a 3.000 euro.

Accordi conciliativi e tracciabilità

La riflessione che segue attiene ai casi in cui le retribuzioni ed i compensi vengono erogati a latere di un accordo conciliativo, anche postumo alla cessazione del rapporto di lavoro. Ciò in quanto, a mio avviso, anche detti importi, qualora considerati retribuzione dall’accordo stesso, devono soggiacere alle nuove prescrizioni normative e come tale dovranno essere erogati esclusivamente attraverso una delle modalità di pagamento tracciabili previste dal legislatore.

Per accordo conciliativo, si deve intendere qualsiasi accordo formulato tra le parti (azienda e lavoratore) che preveda l’erogazione, da parte del datore di lavoro/committente al lavoratore/collaboratore, di una somma il cui titolo è di natura retributiva.

A mero titolo esemplificativo, rientrano in questa categoria le somme erogate per:

  • straordinario
  • maggiori retribuzioni
  • maggiori compensi
  • diverso inquadramento e/o diverse mansioni
  • maggiorazioni per lavoro festivo
  • maggiorazioni per lavoro notturno
  • indennità di qualsiasi genere
  • trattamenti premiali ed incentivanti
  • ferie non godute
  • trattamento di fine rapporto o sua integrazione.

Non rientrano, viceversa, nell’obbligo della tracciabilità, le somme che non sono considerate, dall’accordo conciliativo, mera retribuzione, come, ad esempio:

  • l’incentivo all’esodo
  • la transazione semplice e la transazione novativa a seguito di controversie di lavoro, sempreché l’Inps non valuti dette somme reddito di lavoro dipendente, in quanto conservano funzione di corrispettivo, sia pure indiretto, di obbligazioni che trovano titolo nel rapporto di lavoro (v. circolare Inps n. 6/2014)
  • il rimborso spese (qualora la spesa sia documentata)
  • il risarcimento danni (professionale, morale, di immagine, biologico, d’onore, alla capacità lavorativa generica e specifica, ecc.)
  • il pagamento delle spese legali.

Come si stipulano

Per quanto riguarda le sedi idonee a stipulare gli accordi conciliativi, che prevedano l’erogazione di somme riguardanti rapporti di lavoro ancora in essere o già cessati, rientrano anche sedi “istituzionali”, tra le quali:

  • la Commissione di conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, ai sensi dell’articolo 410 del c.p.c.;
  • la Conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’articolo 411 del c.p.c.;
  • la Conciliazione Monocratica presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, ai sensi dell’articolo 11, del decreto legislativo n. 124/2004;
  • la Conciliazione dinanzi al Giudice Istruttore, ai sensi dell’articolo 185 del c.p.c.;
  • la Commissione di conciliazione presso la Commissione di Certificazione, per i contratti di lavoro certificati, ai sensi dell’articolo 80 del decreto legislativo n. 276/2003.

In tutte queste sedi, i vari funzionari/giudici preposti alla redazione dell’atto conciliativo, dovranno scindere le somme erogate a titolo retributivo, le quali dovranno essere pagate esclusivamente con modalità certe e tracciabili, da eventuali altre somme erogate per finalità diverse e che non subiscono il nuovo obbligo legislativo (sempre nel limite massimo dei 2.999,99 euro, vedi articolo 49, comma 1, del decreto legislativo n. 231/2007).

Considerazioni finali

Mi aspetto, in tal senso, un intervento da parte dell’Ispettorato del Lavoro, attraverso una circolare esplicativa, che chiarisca la situazione e preveda un controllo nella stesura dei verbali conciliativi di propria competenza (conciliazione ordinaria e monocratica), in merito all’adempimento retributivo, in capo al datore di lavoro, con le sole modalità di pagamento tracciabili previste dal legislatore e che di seguito di specificano:

  • bonifico (bancario o postale) sul conto – identificato dal codice IBAN – indicato dal lavoratore
  • strumenti di pagamento elettronico
  • pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento
  • emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.Viene considerato comprovato l’impedimento qualora il delegato sia: il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a 16 anni.

Sanzioni

Ricordo, infine, la sanzione prevista dal legislatore in caso di violazione alla norma: qualora il datore di lavoro o il committente paghi la retribuzione/compenso, o quota parte di essa, per mezzo di denaro contante è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro.

(Fonte IPSOA)

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