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Licenziamento illegittimo: aumentano i costi per le aziende

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Con il decreto Dignità (decreto legge n. 87/2018) viene rivista l’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 3, del decreto legislativo istitutivo delle tutele crescenti (D. Lgs. n. 23/2015).

Rispetto a quanto già previsto dal Decreto Legislativo n. 23/2015, il decreto Dignità non è intervenuto sul modus operandi dell’indennità, che rimane di 2 mensilità per ogni anno di servizio, ma è intervenuto aumentando l’indennizzo ai lavoratori con meno di 3 anni di servizio ed ai lavoratori con più di 12 anni di servizio. Nulla è cambiato, invece, per i lavoratori che hanno una anzianità compresa tra i 3 ed i 12 anni di servizio.

Ricordo, inoltre, che l’indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale e che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità sono riproporzionate e le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni si computano come mese intero. Inoltre, per le aziende al di sotto dei limiti dimensionali dell’articolo 18, l’indennità va dimezzata e non può, in ogni caso, superare il limite di 6 mensilità. Ciò significa che si andrà da un minimo di 3 ad un massimo di 6 mensilità (prima del Decreto Dignità, l’indennità era da minimo 2 ad un massimo 6).

Nulla è cambiato, nel testo del decreto legge, per quanto riguarda l’offerta conciliativa, prevista dall’articolo 6 del Decreto Legislativo n. 23/2015, che continua a prevedere un importo – non assoggettato a contribuzione previdenziale e che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche – di una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

Nella giornata del 26 luglio scorso è stato approvato, dalla Commissione Lavoro della Camera, un emendamento che andrebbe a rivedere anche il massimale dell’articolo 6, in caso di offerta conciliativa, che si posizionerebbe sulle 27 mensilità.

Riepilogando, secondo la nuova formulazione dell’articolo 6, del Decreto Legislativo n. 23/2015, le mensilità da offrire in caso di conciliazione e chiusura di un eventuale contenzioso in materia di licenziamento, andrebbero da 2 a 27 in relazione all’anzialità di servizio del lavoratore (una per anno di servizio).

Nulla è cambiato, infine, per quanto attiene ai lavorati assunti prima del 7 marzo 2015 o che, comunque, non sono a tutele crescenti (ad esempio, apprendisti assunti prima del 7 marzo 2015 e che poi sono stati qualificati dopo tale data). Per loro continuano ad applicarsi, in conformità al numero di dipendenti dell’impresa, le tutele reali (per aziende con più di 15 dipendenti – articolo 18, della Legge 300/1970, così come rivisto dalla Legge 92/2012) o le tutele obbligatorie (aziende fino a 15 dipendenti). In particolare, un lavoratore in tutela reale, qualora il giudice dichiari l’illegittimità di un licenziamento, per una delle motivazioni per le quali il legislatore non ha previsto la reintegra, andrà a percepire una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore ed a tre parametri:

  • il numero dei dipendenti occupati,
  • le dimensioni dell’attività economica,
  • il comportamento e le condizioni delle parti.

N.B. Da questo punto di vista, possiamo notare che, con le modifiche apportate dal Decreto Dignità, i massimali delle due tutele si differenziano notevolmente, in quanto l’indennizzo massimo di un lavoratore in tutela crescente potrà arrivare a 36 mensilità (con anzianità di servizio minima di 18 anni presso quel datore di lavoro) mentre l’indennizzo di un lavoratore in tutela reale si fermerà a 24 mensilità.

Al fine di comprendere le modifiche apportate, si riproduce una tabella contenente le mensilità, previste dal legislatore, quale indennizzo risarcitorio per il lavoratore a tutele crescenti, in caso di sentenza del giudice che valuti illegittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro. Ciò sempreché, quest’ultimo, non abbia rilevato la nullità del licenziamento o la mancanza del fatto materiale contestato in caso di licenziamento disciplinare, nel qual caso la normativa prevede la reintegra piena del lavoratore nel posto di lavoro. La tabella riporta, nella seconda e terza colonna, le differenze di mensilità tra la normativa storica (Decreto Legislativo n. 23/2015) e la modifica apportata dal Decreto Dignità.

(Fonte IPSOA)

Assunzioni a tempo indeterminato: incentivi per 300 milioni l’anno

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Procedono a rilento i lavori delle Commissioni riunite Finanze e Lavoro sul decreto Dignità il cui iter parlamentare sembra dilazionarsi, cercando sempre, comunque, come è nelle intenzioni dichiarate dell’esecutivo, di evitare il ricorso al voto di fiducia.

Come si legge sul sito della Camera i lavori in Aula riprendono lunedì 30 luglio, come deciso dalla conferenza dei Capigruppo, con la discussione sulle linee generali del disegno di legge di conversione.

Sullo “spirito” del provvedimento e sulle intenzioni di modifica del Governo vanno riportate le dichiarazioni rese dl Ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio nel corso di una intervista televisiva

Di Maio ha quantificato in 300 milioni l’anno gli incentivi ad assumere a tempo indeterminato, controvalore che viene stimato rappresentare un abbattimento del 10 per cento sul costo del lavoro.

In questo modo, è l’opinione, non ci saranno effetti negativi sull’occupazione. Ha poi sottolineato come l’obiettivo voglia essere quello di fare in modo che il contratto a tempo indeterminato rappresenti la normalità nel nostro mercato del lavoro superando l’attuale situazione in cui, ha proseguito il Ministro, il contratto a tempo determinato sembra essere l’unico modo per assumere. Profilo importante è poi la specifica per cui tutta la normativa sui contratti a termine si applicherà da ottobre.

Tra i nuovi emendamenti approvati ve ne è in particolare uno, presentato dalle opposizioni, che prevede l’aumento delle indennità di licenziamento in sede di conciliazione tra datore e lavoratore che porta le mensilità a un minimo di tre e un massimo di 27.

Con uno specifico emendamento approvato dalle Commissioni il Governo ha inserito nel decreto Dignità i contenuti del precedente decreto che ha rinviato la fatturazione elettronica nel settore dei carburanti, ripristinando la scheda carburante.

Si è poi ancora in attesa della annunciata modifica del regime dei voucher per agricoltura e turismo essendo ancora non definito se l’estensione riguarderà solo determinati tipi di PMI e se i limiti saranno legati al numero dei dipendenti.

Si discute poi, tra le idee per sostenere il lavoro, anche quella di estendere l’applicazione del bonus Resto al Sud agli under 45 rispetto all’attuale previsione limitata agli under 35 nonché di rafforzare anche il bonus assunzioni nel Mezzogiorno.

(Fonte IPSOA)

Sicurezza sul lavoro: “vigilanza” del lavoratore e conformità dei dispositivi

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Con l’interpello n. 6 del 24 luglio 2018, il Ministero del Lavoro, a riscontro dell’istanza avanzata dall’organizzazione Cub Trasporti fornisce il proprio parere in merito all’esigenza di monitorare la cosiddetta “vigilanza” dell’operatore per la salute e sicurezza sul lavoro utilizzando appositi dispositivi. Il Ministero del Lavoro coglie l’occasione per ribadire che il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, è tenuto a porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo».

Il Ministero chiarisce in premessa che l’azienda è responsabile anche in caso di errore, disattenzione e imprudenza dell’operatore. Questa responsabilità può giustificare l’adozione di misure e dispositivi per il controllo della “vigilanza”, individuati e adottati dalla stessa impresa.

Per assolvere l’obbligo giuridico, posto dalla legge in capo alle aziende, di adottare nell’esercizio dell’attività produttiva le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, può ritenersi assolto con il solo assenso di conformità dei dispositivi ritenuti dalle stesse più convenienti, o le aziende sono obbligate anche a ricercare, adottare ed avvalersi di mezzi, metodi, tecnologie e sistemi, tecnicamente realizzabili, di concezione più moderna.

La Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro ha specificato che, nell’ambito del trasporto ferroviario, l’adozione di strumenti per il controllo dell’attività del “macchinista” è da ritenersi obbligatoria sulla base di norme nazionali ed europee. L’assenso di conformità dei dispositivi per il controllo della vigilanza del macchinista da parte del Ministero dei Trasporti e dell’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria, non determina di per sè una presunzione di conformità alle disposizioni vigenti in materia.

Anche se conforme agli standard europei e nazionali, il datore di lavoro deve valutare l’impatto di ciascun dispositivo sulla salute e sicurezza dei lavoratori. Il Ministero ricorda inoltre che, tra le misure generali di sicurezza a carico del datore di lavoro, rientra anche il rispetto dei principi ergonomici:

  • nella organizzazione del lavoro;
  • nella concezione dei posti di lavoro;
  • nella scelta delle attrezzature;
  • nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo”.

(Fonte IPSOA)

Appalti illeciti: dall’Ispettorato del lavoro le indicazioni per i recuperi contributivi

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L’Ispettorato nazionale del lavoro è intervenuto con la circolare n. 10/2018 per fornire indicazioni al personale di vigilanza del Ministero e di INPS e INAIL, in materia di appalti illeciti. Nel documento di prassi l’Ispettorato si sofferma sulle modalità di calcolo della contribuzione dovuta a titolo di recupero una volta accertate inadempienze retributive e contributive.

Si ha un fittizio contratto di appalto (appalto di manodopera), che maschera una interposizione illecita di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti, che finiscono per essere alle dipendenze effettive di quest’ultimo, il quale detta loro le direttive sul lavoro, esercitando su di essi i tipici poteri datoriali.

Si definisce appalto il contratto con cui una parte, l’appaltatore, si obbliga nei confronti di un’altra, committente o appaltante, a compiere, con l’organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, un’opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro.

La disciplina vigente prevede due tipologie di appalto:

1. l’appalto d’opera, che ha ad oggetto la realizzazione di un’opera, ossia:

  • la modifica materiale di una cosa preesistente (ad esempio la ristrutturazione di un immobile);
  • la creazione di un nuovo bene (ad esempio, l’incarico di costruire una casa su un terreno di proprietà del committente);

2. l’appalto di servizi, che ha ad oggetto l’esecuzione di un’attività utile per il committente, senza elaborazione o trasformazione di beni materiali. All’appalto di servizi si applicano, in quanto compatibili, sia le norme in tema di appalto d’opera sia quelle del contratto di somministrazione.

L’appaltatore deve organizzare i mezzi e svolgere ogni attività necessaria perché sia realizzata l’opera, o il servizio, autonomamente e nel rispetto delle modalità pattuite. L’adempimento dell’obbligazione si ha solo quando l’oggetto del contratto è pienamente realizzato, quindi l’appaltatore ha un’obbligazione di risultato.

I principali requisiti che consentono di contraddistinguere l’appalto sono:

– organizzazione dei mezzi produttivi dell’appaltatore, che deve essere strutturato come un’impresa. Il requisito dell’organizzazione è sicuramente presente quando il lavoro è svolto in prevalenza da personale non appartenente al nucleo familiare e in presenza di un ampio complesso di mezzi produttivi.

– rischio d’impresa sull’appaltatore: l’opera o il servizio oggetto dell’appalto sono compiuti dall’appaltatore con gestione a suo rischio. Si tratta di un rischio di tipo economico, poiché l’opera o il servizio sono realizzati con capitali propri dell’appaltatore;

– autonomia dell’appaltatore: l’appaltatore nell’esecuzione della sua prestazione ha un’ampia autonomia rispetto alle possibili interferenze del committente, anche quando il progetto dell’opera è fornito da quest’ultimo.

Nel realizzare l’opera o il servizio l’appaltatore è libero di decidere come organizzare e regolare lo svolgimento del lavoro e come predisporre e apprestare i mezzi necessari; il committente ha, comunque, la facoltà di verificare la rispondenza della prestazione alle prescrizioni e alle esigenze contrattualmente previste. Può anche effettuare verifiche in corso d’opera e nominare un direttore dei lavori, ma non può interferire con l’organizzazione dell’impresa appaltatrice, la sua gestione ed i rapporti con i dipendenti.

I recuperi retributivi dipendono dalla facoltà di cui dispone il lavoratore in merito alla costituzione del rapporto di lavoro verso l’utilizzatore, con ricorso al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro. Considerare il lavoratore dipendente dell’effettivo utilizzatore non sarà quindi automatico.

Dal 2016 (D.Lgs. n. 8/2016), sono state depenalizzate la somministrazione abusiva (cioè senza le prescritte autorizzazioni) e l’utilizzazione illecita di manodopera.

La sanzione è pari a 50 euro per ogni giornata e per ciascun lavoratore occupato, ed è comminata al somministratore e all’utilizzatore. La sanzione minima non può, in ogni caso, essere inferiore a 5mila euro e superiore a 50mila euro. In questo caso resta esclusa la possibilità di irrogare sanzioni per lavoro nero in quanto il rapporto di lavoro risulta essere comunque ufficialmente esistente per via dei connessi adempimenti retributivi e contributivi, anche se facenti capo ad un datore di lavoro che non è l’effettivo utilizzatore delle prestazioni.

N.B. Qualora venga accertato lo sfruttamento di minori nell’ambito dell’appalto illecito, le conseguenze sanzionatorie sono molto più pesanti; in questo caso, scatta anche la sanzione penale, con l’arresto fino a 18 mesi e l’aumento dell’ammenda sopra indicata fino al sestuplo per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione.

In caso di appalto irregolare, lavoratore è legittimato a richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente, con qualsiasi atto scritto, entro 60 giorni.

La costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del committente ha effetto ex tunc, dalla data di effettivo inizio dell’appalto irregolare.

I pagamenti a titolo retributivo e contributivo effettuati dall’appaltatore valgono, comunque, a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate.

I dipendenti dell’appaltatore, inoltre, hanno diritto di proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino a concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al tempo della domanda.

Indicazioni dell’Ispettorato

Il provvedimento di diffida accertativa potrà essere adottato esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore in relazione alle retribuzioni non correttamente corrisposte in ragione del CCNL dallo stesso applicato.

Il rapporto rilevante per l’ente è quello con il datore effettivo e quindi “gli obblighi di natura pubblicistica in materia di assicurazioni sociali, una volta accertato che la prestazione lavorativa è resa in favore dell’utilizzatore, che si configura, pertanto quale datore di lavoro di fatto – gravano per l’intero su quest’ultimo“.

Il personale ispettivo procederà quindi sul committente/utiizzatore, “fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore”, che verrà chiamato ancora in causa nel caso in cui non vada a buon fine il recupero contributivo verso l’utilizzatore.

In assenza della costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore per effetto del mancato esercizio dell’azione di cui all’art. 414 c.p.c., il provvedimento di diffida accertativa potrà essere adottato esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore in relazione alle retribuzioni non correttamente corrisposte in ragione del CCNL dallo stesso applicato.

Il recupero contributivo, invece, non può ritenersi condizionato dalla scelta del lavoratore di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore; pertanto, in ambito previdenziale, vale il principio secondo cui “l’unico rapporto di lavoro rilevante verso l’ente previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo”. Quindi, conclude l’INL, una volta accertato che la prestazione lavorativa è resa in favore dell’utilizzatore – che si configura, dunque, quale datore di lavoro di fatto – gravano per l’intero su quest’ultimo i contributi dovuti.

Il personale ispettivo dovrà, quindi, determinare l’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto con riferimento al CCNL applicabile al committente, ed effettuare il recupero contributivo nei confronti dello stesso, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore. Qualora non vada a buon fine il recupero contributivo nei confronti del committente/utilizzatore, l’ammontare dei contributi potrà essere richiesto in capo allo pseudo appaltatore, il quale non può comunque ritenersi del tutto estraneo alle vicende accertate.

Sotto il profilo retributivo, va evidenziato che, nelle ipotesi di appalto illecito la circostanza che il lavoratore sia considerato dipendente dell’effettivo utilizzatore della prestazione non è automatica, ma è subordinata al fatto costitutivo dell’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore. In caso contrario il provvedimento di diffida accertativa potrà essere adottato esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore, in relazione quindi alle retribuzioni non correttamente corrisposte in ragione del CCNL dallo stesso applicato.

Sul piano invece del recupero contributivo, osserva l’Ispettorato, il rapporto previdenziale intercorrente tra datore di lavoro e Ente previdenziale trova la propria fonte nella legge e presuppone esclusivamente l’instaurazione di fatto di un rapporto di lavoro: una volta accertato che la prestazione lavorativa è resa in favore dell’utilizzatore (datore di lavoro di fatto) gli oneri e obblighi contributivi gravano per l’intero su quest’ultimo.

Il personale ispettivo, quindi, procederà alla determinazione dell’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto avendo riguardo al CCNL applicabile al committente e al conseguente recupero nei confronti dello stesso, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore.

In ogni caso, qualora non vada a buon fine il recupero contributivo nei confronti del committente/utilizzatore, l’ammontare dei contributi possa essere richiesto in capo allo pseudo appaltatore, il quale non può ritenersi del tutto estraneo alle vicende accertate.

(Fonte IPSOA)

Disoccupazione e offerta di lavoro congrua: quando si decade dalla NASpI

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L’offerta di lavoro da parte dell’ANPAL al lavoratore disoccupato si considera congrua se tiene conto di diversi fattori, fra cui la durata del periodo di disoccupazione, la distanza del luogo di lavoro , la retribuzione proposta.

Con il decreto 10 aprile 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 14 luglio 2018, il Ministero del Lavoro stabilisce i parametri che, a norma dell’articolo 25 del D.Lgs. n.150 del 2015, consentono di definire congrua l’offerta di lavoro il cui rifiuto porta a pesanti conseguenze a carico del disoccupato.

Innanzi tutto, occorre evidenziare che l’articolo 19 del citato D.Lgs. n.150 definisce “disoccupati” i soggetti privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva concordate con il centro per l’impiego.

Il successivo articolo 21 stabilisce che la mancata accettazione, in assenza di giustificato motivo, di un’offerta di lavoro congrua ai sensi dell’articolo 25, la decadenza dalla prestazione e dallo stato di disoccupazione.

Con il decreto del 10 aprile 2018 il Ministero del Lavoro fissa, quindi, i paletti che consentono di applicare il meccanismo di condizionalità disposto dal citato articolo 21.

In primo luogo rileva la durata dallo stato di disoccupazione, conteggiato a decorrere dal giorno in cui è presentata la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa (DID), con l’esclusione dei periodi di sospensione.

L’offerta di lavoro è considerata con parametri meno stringenti al crescere della durata di detto stato considerata fino al giorno in cui l’offerta di lavoro viene proposta:

a) da zero fino a sei mesi

b) da più di sei fino a dodici mesi

c) più di dodici mesi.

Pertanto, fino a sei mesi, l’offerta di lavoro si considera congrua se corrisponde a quanto concordato nel patto di servizio personalizzato, con specifico riferimento all’area di attività o alle aree di attività, nell’ambito del processo di lavoro del settore economico professionale individuato.

Aumentando il periodo di disoccupazione diminuisce l’aderenza fra l’esperienza lavorativa e la nuova offerta di lavoro:

  • per i soggetti in stato di disoccupazione per un periodo superiore a sei mesi e fino a dodici mesi, l’offerta è congrua se rientra nelle aree di attività comprese nel processo di lavoro del settore economico professionale di riferimento o in aree di attività afferenti ad altri processi del settore economico professionale in cui vi sia continuità dei contenuti professionali rispetto alle esperienze e competenze comunque maturate
  • superando i dodici mesi, l’offerta di lavoro è congrua se rientra in una delle aree di attività comprese in tutti i processi di lavoro descritti nel settore economico professionale o in aree di attività afferenti ad altri settori economico professionali in cui vi sia continuità dei contenuti professionali rispetto alle esperienze e competenze comunque maturate, come definite nel patto di servizio personalizzato.

Altrettanto vale per i parametri di riferimento. Per esempio, per i soggetti in stato di disoccupazione per un periodo fino a dodici mesi, l’offerta di lavoro si considera congrua quando il luogo di lavoro non dista più di 50 chilometri dal domicilio del soggetto o comunque è raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici. Qualora lo stato di disoccupazione perduri da oltre dodici mesi la distanza aumenta a 80 chilometri dal domicilio del soggetto ed il tempo per raggiungerla sale a 100 minuti con i mezzi di trasporto pubblici. Non rileva, invece, la durata dello stato di disoccupazione sul livello della retribuzione che consente di considerare congrua l’offerta e che è tale la retribuzione, al netto dei contributi a carico del lavoratore, è superiore di almeno il 20 per cento dell’indennità di disoccupazione percepita nell’ultimo mese precedente, senza considerare l’eventuale integrazione a carico dei fondi di solidarietà.

Si è già detto che il rifiuto senza giustificato motivo di una offerta di lavoro congrua comporta l’applicazione dei meccanismi di condizionalità di cui al’art.25 del dlgs.n.150/2015. Per il decreto in commento, sono considerati giustificato motivo di rifiuto dell’offerta i seguenti eventi, che devono esser comunicati e documentati dall’interessato entro due giorni lavorativi dalla proposta dell’offerta di lavoro congrua:

a) documentato stato di malattia o di infortunio

b) servizio civile e richiamo alle armi

c) stato di gravidanza, per i periodi di astensione previsti dalla legge

d) gravi motivi familiari documentati o certificati

e) casi di limitazione legale della mobilità personale

f) ogni comprovato impedimento oggettivo o causa di forza maggiore, documentati o certificati, ossia “ogni fatto o circostanza che impedisca al soggetto di accettare l’offerta di lavoro congrua”.

Qualora le giustificazioni non siano ritenute idonee, il Centro per l’impiego ne da’ comunicazione all’interessato il quale, nei successivi due giorni, può chiedere di essere sentito.

(Fonte IPSOA)

Congedo di maternità: maggiori tutele per le lavoratrici che assistono familiari disabili

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Con la sentenza n. 158/2018, la Corte costituzionale ha ampliato la sfera della tutela di maternità. In particolare, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dei periodi di congedo straordinario per la cura di coniuge e figli disabili, dal novero dei casi in cui l’indennità di maternità può essere erogata anche in caso di assenza dal servizio per un periodo superiore ai 60 giorni antecedente al periodo di operatività del congedo per maternità. La pronuncia dei Giudici ha evidente rilievo sia per le lavoratrici interessate che per i datori di lavoro che dovranno necessariamente tenere conto di tale circostanza nella programmazione delle loro attività.

L’articolo 24 del D.Lgs. n. 151/01 (TU delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) dispone che le lavoratrici gestanti che, all’inizio del periodo di congedo di maternità, siano sospese o assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate, possono fruire dell’indennità giornaliera di maternità a condizione che tra l’inizio della sospensione, assenza o disoccupazione e quello di congedo non sianodecorsi più di sessanta giorni. Ai fini del computo dei 60 giorni, il comma 3 dell’articolo 24 dispone che non si tenga conto:

  • delle assenze dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro;
  • del periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità;
  • del periodo di assenza fruito per accudire minori in affidamento;
  • del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.

Con due diverse ordinanze, i Tribunali di Torino e Trento hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24.3 del citato TU, nella parte in cui non include – tra i periodi che non concorrono al computo dei sessanta giorni tra l’inizio dell’assenza lavorativa e quello del congedo per maternità – i periodi di congedo straordinario previsti per l’assistenza al coniuge convivente (art. 42 del TU 151/01) o a un figlio (art. 4 L. 104/92), portatori di handicap in situazione di gravità accertata.

La Corte, condividendo le tesi ed argomentazioni proposte dai Giudici rimettenti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale esclusione ed ha affermato che – negando l’indennità di maternità alla madre che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, benefici da più di sessanta giorni di un congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o al figlio in condizioni di grave disabilità – la norma censurata “sacrifica in maniera arbitraria” la protezione che l’art. 37.1 della Costituzione accorda alla madre lavoratrice e al bambino, quale rafforzamento della tutela della maternità e dell’infanzia sancita, in termini generali, dall’art. 31.2 della Costituzione stessa.

Tale irragionevolezza, appare inoltre confermata anche alla luce delle disposizioni dell’articolo 24. 3 del TU, che non comprendono, nel computo dei sessanta giorni tra l’inizio dell’assenza e l’inizio dell’astensione obbligatoria, il “periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità”.

Secondo la Corte la deroga prevista per tali congedi – ispirata a un’esigenza preminente di tutela, cosicché l’indennità di maternità è dovuta anche quando la discontinuità del rapporto di lavoro superi i sessanta giorni – appare fondata su esigenze di pari rilevanza rispetto a quelle tutelate dai congedi straordinari segnalati dai giudici rimettenti. Si tratta, infatti, in entrambi i casi, di congedo subordinato a presupposti “oggettivi e temporali rigorosi”, non equiparabile ad altre assenze, giustificate da motivi personali e di famiglia, che incidono sul computo dei sessanta giorni previsti dalla norma del 2001.

Quindi, l’esclusione oggetto di censura pregiudica la madre che si faccia carico anche dell’assistenza al coniuge o al figlio disabili, operando un “bilanciamento irragionevole” di due princìpi di primario rilievo costituzionale: la tutela della maternità e la tutela del disabile.

Imponendo una “scelta” tra l’assistenza al disabile e la ripresa dell’attività lavorativa per godere delle provvidenze legate alla maternità, la disciplina censurata comporta l’indebito sacrificio di una delle tutele, entrando in contrasto “con il disegno costituzionale che tende a ravvicinare le due sfere di tutela e a farle convergere, nell’alveo della solidarietà familiare, oltre che nelle altre formazioni sociali.”

La Corte conclude affermando che la tutela della maternità e la tutela del disabile, con le peculiarità che le contraddistinguono, “non sono antitetiche, proprio perché perseguono l’obiettivo comune di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3.2 Cost.) e si impone, quindi. Per gli indicati vincoli di solidarietà l’estensione della deroga di cui all’art. 24 del TU del 2001.

Come tutte le sentenze della Corte, anche questa – fatti salvi i termini di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale – trova immediata applicazione. Pertanto, l’INPS dovrà immediatamente inserire i due congedi straordinari de quibus tra le fattispecie di assenza dal servizio da non computarsi ai fini della verifica del periodo intercorrente tra l’inizio dell’assenza dal servizio e l’inizio del periodo di congedo obbligatorio per maternità: con conseguente potenziale estensione del numero delle lavoratrici che potranno maturare il diritto alla tutela ovvero, per converso, che potranno fruire dei congedi per assistenza a familiari disabili senza dover rinunciare alle tutele di maternità.

D’altra parte, pur non essendo ipotizzabile una particolare rilevanza quantitativa della fattispecie, i datori di lavoro potrebbero trovarsi a dover gestire un incremento delle richieste dei due congedi straordinari in questione, proprio in ragione del fatto che gli stessi non pregiudicano più l’eventuale, successiva fruizione delle tutele di maternità.

(Fonte IPSOA)

Maternità: tutela garantita anche nel periodo di congedo straordinario retribuito

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Il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31, secondo comma, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 2 e seguenti, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede che il trattamento di maternità sia erogato anche alla lavoratrice che abbia fruito di congedo ex art. 42, comma 5, d.lgs. 151/2001 e che al momento della richiesta non abbia ripreso a lavorare da più di 60 giorni».

Il rimettente espone di dover decidere sul ricorso di una lavoratrice, beneficiaria da oltre un anno, a causa della necessità di assistere un coniuge gravemente disabile, del congedo straordinario retribuito, e interdetta in anticipo dal lavoro a causa di «gravi complicanze nella gestazione».

La ricorrente nel giudizio principale ha chiesto di condannare l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a corrispondere «il trattamento economico di maternità per l’intera durata del congedo di maternità, compreso il periodo di interdizione anticipata». Tale trattamento le sarebbe stato originariamente negato sul presupposto che l’interdizione anticipata del lavoro per gravidanza a rischio era «avvenuta senza effettiva ripresa dell’attività lavorativa da parte della ricorrente».

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 158/2018 del 13 luglio 2018 rileva che il Tribunale ordinario di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’art. 24 del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, nella parte in cui non annovera il congedo previsto per l’assistenza, rispettivamente, al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata, tra i periodi di cui non si tiene conto ai fini del computo di quell’arco temporale di sessanta giorni tra l’inizio della sospensione o dell’assenza e l’inizio del periodo di congedo di maternità, superato il quale l’attribuzione dell’indennità di maternità risulta preclusa.

La questione pare fondata anche perché il testo unico del 2001 appresta una disciplina articolata delle diverse ipotesi di sospensione e di interruzione dell’attività lavorativa, anteriori all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, e delle fattispecie in cui l’indennità di maternità è concessa anche quando sia trascorso un periodo superiore a sessanta giorni tra l’assenza e la sospensione e l’inizio dell’astensione obbligatoria.

La legge, in particolare, accorda l’indennità giornaliera di maternità anche alle «lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate», purché «tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni».

Inoltre la disposizione non annovera tra le esigenze preminenti di tutela la necessaria assistenza del coniuge o del figlio disabili, in forza di un congedo straordinario concesso ai sensi dell’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001. Nel negare l’indennità di maternità alla madre che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, benefici da più di sessanta giorni di un congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o al figlio in condizioni di grave disabilità, la disposizione censurata sacrifica in maniera arbitraria la speciale adeguata protezione che l’art. 37, primo comma, della Costituzione accorda alla madre lavoratrice e al bambino. Quest’ultima previsione specifica e rafforza la tutela della maternità e dell’infanzia già sancita in termini generali dall’art. 31, secondo comma, della Costituzione.

L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario risponde all’esigenza di garantire la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione.

Alla luce di quanto esposto , la Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art.4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).

(Fonte IPSOA)

Artigiani e commercianti: pronti i modelli F24 per i nuovi iscritti

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L’INPS, nel messaggio n. 2876 del 17 luglio 2018, comunica che è stata ultimata una nuova elaborazione dell’imposizione contributiva per tutti i soggetti iscritti alla Gestione Artigiani e Commercianti per l’anno 2018 e per eventuali periodi precedenti non già interessati da imposizione contributiva.

In corrispondenza di tale elaborazione, sono stati predisposti i modelli “F24” necessari per il versamento della contribuzione dovuta.

Gli stessi sono disponibili, in versione precompilata, nel “Cassetto Previdenziale per Artigiani e Commercianti”, insieme al prospetto di sintesi degli importi dovuti con le relative scadenze e causali di pagamento.

Una e-mail di alert sarà inviata ai titolari di posizione assicurativa, ovvero ai loro intermediari delegati.

(Fonte IPSOA)

Appalto illecito: sanzioni e adempimenti obbligatori per committente e utilizzatore

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Con la circolare n. 10 dell’11 luglio 2018, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce alcune indicazioni di carattere operativo riguardo le corrette modalità di calcolo della contribuzione e della retribuzione dovuta nei casi in cui, a seguito di accertamenti ispettivi che portino alla individuazione di un appalto non genuino, siano riscontrate inadempienze retributive e contributive nei confronti dei lavoratori impiegati nell’esecuzione dell’appalto.

In premessa l’Ispettorato chiarisce che le violazioni in esame, a seguito della avvenuta depenalizzazione, integrano ipotesi di illecito amministrativo per le quali trova applicazione la sanzione amministrativa di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro sia nei confronti dello pseudo appaltatore che nei confronti del committente/utilizzatore.

La misura sanzionatoria così individuata esclude la possibilità di applicare sanzioni per lavoro nero e delle altre sanzioni amministrative legate agli adempimenti di costituzione e gestione del rapporto di lavoro, in quanto è comunque esistente un rapporto di lavoro e gli adempimenti retributivi e contributivi risultano comunque effettuati.

Sotto il profilo retributivo, va evidenziato che, nelle ipotesi di appalto illecito la circostanza che il lavoratore sia considerato dipendente dell’effettivo utilizzatore della prestazione non è “automatica”, ma è subordinata al “fatto costitutivo dell’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore. In caso contrario il provvedimento di diffida accertativapotrà essere adottato esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore, in relazione quindi alle retribuzioni non correttamente corrisposte in ragione del CCNL dallo stesso applicato.

Sul piano invece del recupero contributivo, osserva l’Ispettorato, il rapporto previdenziale intercorrente tra datore di lavoro e Ente previdenziale trova la propria fonte nella legge e presuppone esclusivamente l’instaurazione di fatto di un rapporto di lavoro: una volta accertato che la prestazione lavorativa è resa in favore dell’utilizzatore (datore di lavoro di fatto) gli oneri e obblighi contributivi gravano per l’intero su quest’ultimo. Il personale ispettivo, quindi, procederà alla determinazione dell’imponibile contributivo dovuto per il periodo di esecuzione dell’appalto avendo riguardo al CCNL applicabile al committente e al conseguente recupero nei confronti dello stesso, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti effettuati dallo pseudo appaltatore. In ogni caso, qualora non vada a buon fine il recupero contributivo nei confronti del committente/utilizzatore, l’ammontare dei contributi possa essere richiesto in capo allo pseudo appaltatore, il quale non può ritenersi del tutto estraneo alle vicende accertate.

(Fonte IPSOA)

Lavoro stagionale: non serve la causale

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I contratti a termine per l’attività stagionale possono essere rinnovati e prorogati senza bisogno di causali. L’attesa esclusione trova spazio nel comma 01 aggiunto all’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015 dal decreto Dignità.

Trovate le coperture finanziarie, il decreto Dignità inizia il percorso che lo porterà ad affrontare l’esame dell’Aula della Camera, programmato per il prossimo 24 luglio.

I contratti in corso alla data di entrata in vigore del decreto continueranno con le previgenti disposizioni fino alla loro naturale scadenza; ma eventuali proroghe o rinnovi dovranno osservare le nuove regole.

Il che significa che in ogni caso di rinnovo del contratto scaduto anche se inferiore ai dodici mesi o se, con la proroga si superano i predetti dodici mesi, sarà necessario indicare la causale che, a norma del nuovo comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015, dovrà essere riferita a:

  • esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori;
  • esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Del lavoro stagionale si occupa il secondo periodo del comma 01, aggiunto all’art. 21 del richiamato D.Lgs. n. 81/2015, che espressamente stabilisce che i contratti stagionali di cui al comma 2 dello stesso art. 21 possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, del predetto decreto.

Pertanto, le attività stagionali sono escluse dai limiti di durata, dall’obbligo di apporre la causale, dal rispetto degli intervalli in caso di rinnovo del contratto e dai limiti numerici.

Deve ovviamente trattarsi dell’attività stagionale come definita dal secondo comma del richiamato art. 21:

  • attività individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, fermo restando che, fino all’adozione del suddetto decreto continuano a trovare applicazione le disposizioni del D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525;
  • ipotesi individuate dai contratti collettivi.

Il CCNL del turismo e pubblici esercizi, per esempio, definisce (art. 82) stagionali le imprese che osservano nel corso dell’anno uno o più periodi di chiusura al pubblico come disposto dalle norme vigenti. Il successivo art. 83 include nei casi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro le intensificazioni dell’attività lavorativa in particolari periodi dell’anno, quali l’intensificazione stagionale o ciclica nelle imprese ad apertura annua e i periodi delle festività.

Per le attività non riconducibili alla stagionalità, invece, le proroghe non potranno essere più di quattro, ferma restando la durata massima complessiva di 24 mesi. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga. Ai fini del computo della durata complessiva massima si considerano i contratti a termine, compresi quelli in somministrazione, conclusi fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dagli eventuali periodi di interruzione fra un contratto e l’altro.

Salvo diverse previsioni dei contratti collettivi, un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di dodici mesi, può essere stipulato presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente per territorio.

(Fonte IPSOA)

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