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Licenziamento ingiustificato e indennità risarcitorie: nuove ombre per aziende e professionisti

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L’ultimo provvedimento legislativo in materia di lavoro non sfugge alla tendenza delle più recenti riforme di intervenire sulla disciplina dei licenziamenti.
Dopo la riforma “Fornero”, che ha scomposto l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sostituendo il monolite della tutela reale con una gradazione di diversi regimi in relazione alla gravità delle ragioni individuate, aprendo alla tutela obbligatoria anche per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti, è stata la volta del D. Lgs. n. 23/2015.

Le tutele crescenti del Jobs Act lungo la traccia della diversificazione delle tutele, superando l’art. 18, hanno introdotto meccanismi di prevedibilità per le sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato, calcolate con parametri predeterminati in base all’anzianità di servizio e per la loro applicazione sottraggono qualsiasi momento valutativo discrezionale ai giudici.

Anche il decreto Dignità, così come la riforma Fornero e le tutele crescenti, interviene sulla materia delicata della regolamentazione dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti e ne modifica la disciplina relativa alle conseguenze della declaratoria di illegittimità.

Il D.L. n. 87/2018 opera sui canoni delle tutele crescenti aumentando i valori minimi e massimi di riferimento per il calcolo delle mensilità da riconoscere in caso di licenziamento ingiustificato perché privo della giusta causa o del giustificato motivo, che adesso passano da un minimo di sei ad un massimo di trentasei. L’aumento risulta apprezzabile soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio minima o superiore ai 12 anni, mentre nel periodo intermedio, dai tre ai dodici anni di anzianità di servizio, il “costo” del licenziamento risulta sostanzialmente identico.

Nel processo di conversione del decreto, la legge n. 96/2018 ha apportato modifiche analoghe ai criteri di calcolo dell’indennità per l’offerta conciliativa che il datore di lavoro può proporre con l’art. 6 del d.lgs. n. 23/2015, entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, per scongiurare la lite sulla verifica della legittimità del provvedimento. In questo caso la misura minima è portata a 3 mensilità e quella massima a 27, contro le 2 minime e le 18 massime della versione originaria della norma.

Si tratta di un intervento che oltre a porsi quale naturale corollario del generale aumento delle misure indennitarie per i licenziamenti ingiustificati, appare inoltre evidentemente destinato a recuperare la proporzionalità proprio con quelle altre misure, in conseguenza dell’aumento operato per l’indennità disposta dal giudice in caso di impossibilità di composizione bonaria, per restituire all’offerta conciliativa, oltre alla rapidità e snellezza del procedimento, quell’appetibilità, unita al trattamento fiscale e contributivo favorevole, che l’intervento sull’art. 3 rischiava di sminuire. Aumentando gli importi in caso di condanna, il rischio del giudizio poteva risultare più accettabile, a fronte di indennità più basse nel caso di un’offerta (e di un accordo) di natura conciliativa.

Le nuove norme sono immediatamente operative e, nel silenzio della legge, che non prevede regimi transitori né alcuna indicazione in merito, sulla scorta della giurisprudenza e dell’esperienza maturata in relazione a situazioni simili, pare potersi ritenere che i nuovi limiti per calcolare le indennità da riconoscere in caso di licenziamento illegittimo o in sede di composizione bonaria in esito all’offerta conciliativa proposta dal datore di lavoro, possono essere applicati anche ai licenziamenti irrogati prima dell’entrata in vigore delle nuove norme, per i quali il procedimento non si sia ancora definito.

Su un apparato sanzionatorio non immune da critiche e perplessità è di recente intervenuta anche la Corte costituzionale, che accogliendo (parzialmente) la nota ordinanza di rimessione del 26 luglio 2017 del Tribunale di Roma, ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal D.L. n. 87/2018 – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Ciò, secondo il comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale del 26 settembre 2018 (al momento della redazione di questa breve nota la sentenza non è stata ancora depositata), perché “la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 della Costituzione”.

La dichiarazione di incostituzionalità della Consulta, la cui concreta portata potrà verificarsi con la pubblicazione della sentenza, determina immediatamente un nuovo grado di incertezza sui criteri di determinazione della indennità da riconoscere in caso di licenziamento ingiustificato. È evidente che sarà il giudice a determinarla, nuovamente secondo discrezionalità, attingendo verosimilmente ai canoni già noti e mutuati dallo Statuto dei lavoratori (art. 18) e dalla legge sui licenziamenti individuali (art. 8, legge n. 604/66), con la conseguente possibilità di ribaltare il rapporto tra tutele crescenti e art. 18, con il primo regime che, nell’incertezza, potrebbe rivelarsi anche più favorevole dell’anelata applicazione della norma dello Statuto.

Roma, 11 ottobre 2018

(Fonte IPSOA)

Contratto a tempo determinato: rinnovi più cari, ma rimborsabili alle aziende

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Con il decreto Dignità (decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla legge 9 agosto 2018, n. 96) cambiano le regole relative ai contributi previdenziali dovuti sui contratti a tempo determinato. L’art. 3, comma 2 del decreto ha, infatti, previsto un maggior onere contributivo nel caso di rinnovi contrattuali.

In particolare, è previsto che il contributo di cui all’articolo 2, comma 28, della legge 28 giugno 2012, n. 92 è aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione. Si tratta del contributo addizionale NASpI introdotto dalla legge Fornero con decorrenza dai periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 e pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.

Tale contributo fino al 13 luglio 2018 – data di entrata in vigore del D. L. n. 87/2018 – era sempre dovuto nella misura dell’1,4% a prescindere dalla durata del contratto o da eventuali rinnovi. Successivamente, invece, per ogni rinnovo contrattuale il contributo è dovuto nella misura pari all’1,4% a cui va aggiunto uno 0,5% per ogni rinnovo contrattuale.

Dovranno essere computati esclusivamente i rinnovi dal 14 luglio 2018, posto che la nuova formulazione dell’art. 2, comma 28 della Legge n. 92/2018 prevede che “Il contributo addizionale è aumentato […] in occasione di ciascun rinnovo […]”. Non rilevano dunque i rinnovi contrattuali tra le parti stipulati antecedentemente alla data predetta.

L’aumento contributivo è dovuto per tutti i contratti a tempo determinato, anche in regime di somministrazione. Unica esclusione prevista dalla norma riguarda i contratti di lavoro domestico.

Ricordiamo, a tal fine, che in occasione dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012 era sorto il dubbio se il contributo addizionale NASpI fosse dovuto anche in relazione ai contratti di lavoro domestico in considerazione della specialità della disciplina relativa a tale tipologia di lavoro. Il comma 29 dell’art. 2 della legge Fornero, infatti, non prevede alcuna esclusione per tali contratti.

L’INPS è intervenuta su tale aspetto con la circolare n. 25 dell’8 febbraio 2013, n 25 chiarendo che tale contributo è dovuto anche per i rapporti di lavoro domestico. Successivamente, l’INPS ha confermato l’obbligo col messaggio n. 4441/2015 giustificandolo con l’assenza di una norma che ne preveda l’esclusione.

Le ultime modifiche al comma 28 fugano ogni possibile dubbio interpretativo in quanto è previsto “disposizioni del precedente periodo” – cioè quelle dell’aumento contributivo per ogni rinnovo – “non si applicano ai contratti di lavoro domestico”.

L’aumento del contributo è operativo dal 14 luglio 2018 e riguarda tutti i contratti di lavoro a tempo determinato a prescindere dall’applicazione del regime transitorio. Tale regime, infatti, prevede che le disposizioni di cui all’art. 1 del D. L. n. 87/2018 – cioè le modifiche in materia di contratto a tempo determinato del D. Lgs. n. 81/215 – si applicano solo ai nuovi contratti di a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018.Opera dunque sulle disposizioni dell’art. 1 del D.L. n. 87/2018 e non anche su quelle dell’art. 3 che regolano l’aumento del contributo addizionale NASpI.

L’aumento contributivo è dovuto a condizione che sorga l’obbligazione contributiva dell’1,4% del contributo addizionale ASpI e quindi non si applica laddove il contributo non sia dovuto.

A tal fine, ricordiamo che il contributo addizionale (INPS, messaggio n. 4441 del 30 giugno 2015) non si applica:

  • ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti
  • lavoratori dipendenti (a tempo determinato) delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni
  • apprendisti
  • lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. n. 1525/1963 (l’esenzione non spetta per le attività stagionali individuate dai contratti collettivi).

Il contributo addizionale versato dai datori di lavoro potrà essere oggetto di restituzione nel caso di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato o in caso di assunzione sempre a tempo indeterminato. Tale possibilità è espressamente prevista dall’art. 2, comma 30 della legge Fornero.

Nel primo caso, la norma prevede espressamente che il contributo “è restituito, successivamente al decorso del periodo di prova, al datore di lavoro in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato”. Nella seconda ipotesi, invece, è previsto che “La restituzione avviene anche qualora il datore di lavoro assuma il lavoratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato entro il termine di sei mesi dalla cessazione del precedente contratto a termine. In tale ultimo caso, la restituzione avviene detraendo dalle mensilità spettanti un numero di mensilità ragguagliato al periodo trascorso dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a termine”.

Pertanto, se si procede alla stabilizzazione a tempo indeterminato, la restituzione riguarda i contributi versati per l’intero periodo contrattuale.

Se si procede all’assunzione a tempo indeterminato, occorre tenere conto che il recupero potrà avvenire se il contratto è stato stipulato entro 6 mesi. Inoltre, dai 6 mesi teorici di contributo addizionale versato, occorre decurtare pro rata i mesi trascorsi dal termine del contratto a tempo determinato fino alla trasformazione (sulle modalità di calcolo, circolare INPS n. 140/2012).

E’ utile evidenziare che la restituzione contributiva è cumulabile con gli incentivi che operano sulle aliquote di finanziamento delle prestazioni contributive. Ad esempio, la stabilizzazione di un contratto a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato con un soggetto che possiede i requisiti previsti dall’agevolazione di cui all’art. 1, commi 100 e seguenti della legge n. 205/2017, consentirà il

Non risulta apportata alcuna modifica invece relativamente alle agevolazioni previste in caso di assunzioni a tempo determinato effettuate ai sensi dell’articolo 4 del D. Lgs n. 151/2001 in sostituzione di lavoratrici e di lavoratori assenti per congedo di maternità o paternità.

L’incentivo – ricordiamo – è limitato ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori (cfr. circ. INPS n. 136/2001) con meno di 20 dipendenti all’atto della richiesta, consiste in uno sgravio contributivo del 50% e spetta fino al compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice o del lavoratore in congedo o per un anno dall’accoglienza del minore adottato o in affidamento.

L’assunzione può avvenire con un mese di anticipo rispetto a quello di inizio del congedo, fatti salvi periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva. Le agevolazioni si rivolgono anche alle aziende in cui operano lavoratrici autonome, per un periodo massimo di 12 mesi. Roma, 8 ottobre 2018 (Fonte IPSOA)

CIGO e CIGS: dal 1° novembre controllo telematico dei limiti di fruizione

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Con il messaggio n. 3566 del 28 settembre 2018, l’INPS avvisa che, a partire dal 1° novembre 2018, sarà possibile utilizzare una nuova funzione telematica utile alla verifica del rispetto dei limiti temporali per la fruizione degli interventi di Cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS). Nel contempo, sempre a partire dall’ novembre, il nuovo elenco dei lavoratori beneficiari sostituirà il file .csv, sino ad allora allegato all’istanza.

Dal 1° novembre 2018 aziende e consulenti potranno avvalersi di un nuovo servizio che consentirà, sul portale INPS, di simulazione del calcolo ai fini della verifica del rispetto dei limiti temporali di ricorso agli interventi di integrazione salariale ordinaria e straordinaria:

– 52 settimane nel biennio mobile per la CIGO (art. 12 del D.Lgs. n. 148/15);

– 24 mesi (30 mesi per le imprese del settore edile e lapideo) nel quinquennio mobile.

Sarà possibile, inoltre, visionare il dettaglio delle settimane conteggiate nella simulazione. Nel caso in cui le settimane conteggiate non corrispondano a quelle effettivamente fruite, si potrà indicare il dato del fruito in fase di invio della relativa domanda di CIGO allegando alla stessa un’autocertificazione riepilogativa delle giornate effettivamente fruite per i periodi precedentemente autorizzati.

Sempre a partire dal 1° novembre 2018, il file CSV da allegare ai dintorni sarà sostituito, in alcuni casi, da un nuovo format.

Le informazioni in esso contenute verranno infatti reperite dai dati forniti con i flussi Uniemens dei 6 mesi precedenti la data di inizio del periodo di CIGO richiesto.

L’istituto provvederà a richiedere file CSV soltanto nei casi in cui sia necessario completare il controllo ai fini di un eventuale motivato rigetto, totale o parziale dell’istanza, qualora sia stato superato il predetto limite di 1/3 e non risultino inviati o completi i dati Uniemens dei 6 mesi precedenti la domanda.

Parallelamente all’eliminazione del file CSV, sarà obbligatorio indicare con la domanda i nominativi dei lavoratori beneficiari, allegando l’elenco dei beneficiari sia in formato XML che CSV in base ai nuovi tracciati forniti in allegato al messaggio.

L’Istituto prevede altresì un periodo transitorio, fino al 30 aprile 2019, in cui le aziende stesse importare i codici fiscali dei beneficiari direttamente dal vecchio file CSV.

(Fonte IPSOA)

Lavoro a termine: 60 giorni in più per impugnare il contratto

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Il decreto Dignità, nel modificare la disciplina del contratto a termine, è intervenuto anche sulla decadenza dell’azione di impugnazione del contratto, che deve ora avvenire entro 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto e non più entro 120 giorni come precedentemente disposto dal Jobs Act (articolo 28 del D. Lgs. n. 81/2015).

Ai fini procedurali la legge n. 96/2018 rinvia alla disciplina di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, pertanto per la validità dell’impugnazione occorre un atto idoneo a manifestare la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il termine applicato al contratto.

Per il disposto del primo comma del richiamato art.6, l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Per espressa previsione normativa si applica altresì il secondo comma del suddetto articolo 6. Pertanto, in caso di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato a causa del termine illegittimamente apposto, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.

E’ necessaria grande attenzione all’utilizzo delle causali quando queste siano dovute poiché la tassatività delle ipotesi previste dalla legge 96/2018 non consente grandi spazi di manovra.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione che, seppure riferita al previgente D. Lgs. n. 368/2001, è nuovamente di grande attualità. Con la sentenza n. 22188 depositata il 12 settembre 2018 la Suprema Corte afferma, infatti, che ai fini del requisito di specificazione risulta essenziale non solo la precisa e puntuale indicazione delle ragioni determinative dell’assunzione a termine, ma anche la diretta utilizzazione del lavoratore nell’ambito e nelle attività indicate ai fini dell’assunzione.

Nella stipula di un contratto a termine occorre anche valutare con attenzione la possibile durata. Aldilà della facile previsione di non voler superare i 12 mesi per non incorrere nell’obbligo di indicare la causale, è bene ricordare che il termine apposto al contratto impegna le parti ad osservarlo.

Il recesso anticipato unilaterale non debitamente giustificato espone quindi la parte recedente ad una azione risarcitoria che, nel caso sia il datore di lavoro, viene, di solito, quantificata nelle retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore fino alla fine del periodo contrattuale ma potrebbe essere anche maggiore.

(Fonte IPSOA)

La privacy 4.0 ridisegna il sistema sanzionatorio per punire gli illeciti

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Il decreto legislativo n. 101/2018, pensato per adeguare la normativa nazionale italiana alle disposizioni del GDPR (già in vigore dal 2016, e attuato dal 25 maggio 2018), contiene una parte che va a disciplinare le sanzioni penali che caratterizzeranno la nuova era “digitale” della protezione dei dati. Nel regime precedente, reati quali l’omessa adozione di misure minime di sicurezza, il trattamento illecito dei dati e le false comunicazioni all’Autorità Garante si erano ritagliati uno spazio importante nel sistema più generale degli adeguamenti e degli obblighi di protezione dei dati.

L’avvento del GDPR aveva, al contempo, generato diversi timori in quanto non si faceva cenno a sanzioni penali o, meglio, si lasciavano i singoli Stati liberi di decidere sul punto.

Si era diffusa una voce, i primi mesi, circa l’intenzione dello Stato italiano di non prevedere sanzioni penali nell’ambito della protezione dei dati (mutando, così, rotta rispetto alla disciplina precedente e valutando le più ampie sanzioni amministrative presenti nel Regolamento già sufficienti come strumento di repressione dei comportamenti illeciti).

In realtà, il testo finale del decreto, che va a modificare il Codice privacy del 2003 rimasto, così, in vita in quelle parti non disciplinate (o non in conflitto) con il Regolamento, prevede eccome delle fattispecie di reato e ha allargato il quadro precedente con nuove ipotesi più adatte ai tempi tecnologici, al fenomeno dei big data e dei grandi archivi e alla possibilità, in caso di incidente informatico o di violazione delle misure di sicurezza, di arrecare danni ai diritti e alle libertà di un gran numero di individui.

In primis, la vecchia ipotesi del trattamento illecito di dati è rimasta ben salda nell’articolo 167 del Codice Privacy, e apre il Capo II dedicato, appunto, agli “Illeciti penali”.

L’articolo in questione diventa, però, più complesso e si articola in tanti punti ben distinti. Il primo stabilisce che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, effettua operazioni di trattamento dei dati in violazione di specifiche disposizioni di legge (soprattutto quelle relative al traffico, all’ubicazione e alle comunicazioni indesiderate) e arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi.

Si tratta, come è facile comprendere, dell’ipotesi più lieve, che va a sanzionare comportamenti connessi ai dati relativi al traffico, alle reti pubbliche di comunicazioni, ai servizi di comunicazione elettronica, alle informazioni sull’ubicazione degli utenti e alle comunicazioni indesiderate, all’invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta).

Più grave è l’ipotesi prevista dal secondo punto, dove entra l’ipotesi “classica” (e più generica) di trattamento illecito e secondo la quale chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero per arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento di dati personali (anche in violazione di misure di garanzia) arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica, nota il terzo punto, a chi proceda al trasferimento dei dati personali verso un Paese terzo o un’organizzazione internazionale al di fuori dei casi consentiti. Rispetto alla prima ipotesi, si noti come questa sia ritenuta, dal Legislatore, più grave (anche per la “perdita di controllo” del dato e dei suoi itinerari nella società dell’informazione).

Una novità interessante è contenuta nel quarto punto, dove si dice che il Pubblico Ministero, quando ha notizia dei reati di cui sopra, ne informa senza ritardo il Garante. Il Garante, a sua volta, trasmette al pubblico ministero, con una relazione motivata, la documentazione raccolta nello svolgimento dell’attività di accertamento nel caso in cui emergano elementi che facciano presumere la esistenza di un reato. La trasmissione degli atti al Pubblico Ministero avviene al più tardi al termine dell’attività di accertamento delle violazioni. Sembra, prima facie, una procedura molto macchinosa, e irrituale, che fa entrare l’autorità di controllo nel sistema processualpenalistico con una sorta di obbligo di informazione (in capo al PM) per qualsiasi reato connesso al trattamento dei dati. Infine, il sesto punto dispone che quando per lo stesso fatto è stata applicata, a norma del codice o del GDPR, a carico dell’imputato o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria dal Garante e questa è stata riscossa, la pena è diminuita. Non un vero e proprio ne bis in idem, quindi, ma una attenuazione della sanzione penale nel caso la sanzione amministrativa già sia stata comminata e riscossa.

Un nuovo articolo, il 167-bis, introduce poi il reato di “comunicazione e diffusione illecita di dati personali oggetto di trattamento su larga scala”. Si tratta di un’ipotesi innovativa volta a punire chiunque comunichi o diffonda, al fine di trarre profitto per sé o altri ovvero al fine di arrecare danno, un archivio automatizzato o una parte sostanziale di esso contenente dati personali oggetto di trattamento su larga scala.

La pena prevista è la reclusione da uno a sei anni. Lo stesso articolo prevede che venga punito chiunque comunichi o diffonda, senza consenso, un archivio automatizzato o una parte sostanziale di esso contenente dati personali oggetto di trattamento su larga scala, quando il consenso dell’interessato è richiesto per le operazioni di comunicazione e di diffusione. La nozione di larga scala è qui il fulcro centrale anche della sanzione penale, e dimostra chiaramente il timore che ha il Legislatore per il trattamento di grandi quantitativi di informazioni nell’era del cloud, dei big data e delle reti.

La terza ipotesi, prevista dall’articolo 167-ter, è stata denominata “Acquisizione fraudolenta di dati personali oggetto di trattamento su larga scala” e punisce chiunque, al fine di trarne profitto per sé o altri ovvero di arrecare danno, acquisisce con mezzi fraudolenti un archivio automatizzato o una parte sostanziale di esso contenente dati personali oggetto di trattamento su larga scala. La pena prevista è la reclusione da uno a quattro anni. Questo reato ha in comune col precedente l’abuso nell’utilizzo di un archivio di trattamenti su larga scala ma si concentra prettamente sull’acquisizione fraudolenta (una sorta di “furto”, insomma) di grandi quantitativi di dati.

Falsità nelle dichiarazioni al Garante

Infine, l’articolo 168 (“Falsità nelle dichiarazioni al Garante e interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio di poteri del Garante”) punisce chiunque, in un procedimento o nel corso di accertamenti dinanzi al Garante, dichiari o attesti falsamente notizie o circostanze o produca atti o documenti falsi. La pena prevista è la reclusione da sei mesi a tre anni. È poi punito con la reclusione sino ad un anno chiunque intenzionalmente cagioni un’interruzione o turbi la regolarità di un procedimento dinanzi al Garante o degli accertamenti dallo stesso svolti. Un’ipotesi nuova, quest’ultima, volta a tutelare l’autorità del Garante nelle operazioni che è chiamato a effettuare.

Inosservanza di provvedimenti del Garante e violazioni in materia di controlli a distanza

Caduti i reati connessi alle misure di sicurezza (visto che non sono più previste le misure minime) rimangono due norme di chiusura che terminano l’attenzione penalistica del Legislatore. Ci si riferisce, in particolare, all’articolo 170 (“Inosservanza di provvedimenti del Garante”, con reclusione da tre mesi a due anni) e all’articolo 171 (“Violazione delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori”) che rimanda alle sanzioni previste dallo Statuto dei Lavoratori.

(Fonte IPSOA)

Assegno di ricollocazione: ANPAL specifica i termini per presentare le istanze

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Con la nota n. 11122 del 7 settembre 2018, l’ANPAL ha specificato i termini di presentazione delle istanze utili all’assegnazione dell’assegno di ricollocazione. A tal fine, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, ha chiarito che i giorni festivi non vanno computati nel calcolo del termine di 30 giorni dalla sottoscrizione dell’accordo di ricollocazione.

L’ANPAL ha integrato le note operative fornite il 23 luglio 2018 in relazione alla presentazione delle istanze per l’assegno di ricollocazione.

La domanda va presentata entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo di ricollocazione.

In particolare, con la nota n. 11122 del 7 settembre 2018, l’Agenzia ha fatto presente che – qualora la scadenza per la presentazione delle prenotazioni per l’assegno di ricollocazione cada in un giorno festivo – la scadenza stessa è posticipata sino al primo giorno lavorativo successivo.

Inoltre, per gli accordi di ricollocazione stipulati in data antecedente alla messa on line del portale dedicato http://adrcigs.anpal.gov.it, il termine dei 30 giorni deve intendersi riferito alla data di attivazione del portale stesso e dunque saranno prese in considerazione le istanze presentate entro il 24 agosto 2018.

(Fonte IPSOA)

 

 

Contratti di lavoro a termine

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Il decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) ha modificato profondamente la disciplina dei contratti di lavoro a termine stabilendo, in particolare, che può essere apposto un termine di durata fino ad un massimo di 12 mesi.

Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi e con l’eccezione delle attività stagionali, la durata massima dei rapporti a tempo determinato, compresi i rapporti in somministrazione a termine, intercorsi tra le parti anche per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, è fissata in 24 mesi. Una durata superiore, non oltre 24 mesi, è possibile solo in presenza specifiche ragioni giustificatrici (causali). Analoghi obblighi di motivazione sono necessari in caso di rinnovo e per le proroghe che determinano il superamento dei 12 mesi di durata.

Inoltre il numero massimo di proroghe è ridotto a 4 e il termine per l’impugnazione è incrementato a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto.

Al fine di venire incontro alle esigenze delle imprese che avevano lamentato difficoltà organizzative e gestionali a fronte dell’immediata applicazione della nuova stringente normativa in materia di contratti a termine anche ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti già in corso, la legge di conversione del Decreto Dignità (legge n. 96/2018) introduce, a decorrere dal 12 agosto 2018, una disciplina transitoria che si protrarrà fino al 31 ottobre 2018.

Vengono apportate, altresì, alcune correzioni rispetto al testo originario al fine di conferire immediata sistematicità alle conseguenze sanzionatorie nell’ipotesi di mancata presenza delle condizioni giustificatrici necessarie per i rapporti di durata superiore ai 12 mesi nonché in caso di rinnovo del contratto a termine. Inoltre, per non gravare ulteriormente sui bilanci delle famiglie che si avvalgono di colf e badanti, il lavoro domestico viene esentato dall’incremento dei costi contributivi previsti in caso di rinnovo del contratto a termine.

Cosa cambia

Termine di durata, Jobs Act (D.Lgs. n. 81/2015): Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a 36 mesi.

Termine di durata, Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018 conv. in L. n. 96/2018): Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a 12 mesi.

Può essere apposto un termine avente una durata superiore, comunque non oltre 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:

  • a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinariaattività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Durata massima, Jobs Act: Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi e con l’eccezione delle attività stagionali, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato (anche in somministrazione) intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i 36 mesi. In caso di superamento di tale limite, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.

Durata massima, Decreto Dignità: La durata massima dei rapporti a tempo determinato, anche in somministrazione, intercorsi tra le parti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, è fissata in 24 mesi.

Proroghe e rinnovi, Jobs Act: Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a 36 mesi e, comunque, per un massimo di 5 volte nell’arco di 36 mesi a prescindere dal numero dei contratti.

Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della sesta proroga.

Proroghe e rinnovi, Decreto Dignità: Il contratto può essere rinnovato o prorogato oltre l’anno, solo in presenza delle esigenze giustificatrici previste in caso di superamento dei 12 mesi di durata. Fanno eccezione i contratti per attività stagionali che possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza di ragioni giustificatrici. Il contratto a termine può, altresì, essere prorogato liberamente nei primi 12 mesi.

In caso di rinnovo o di proroga oltre i 12 mesi, l’apposizione del termine deve risultare con atto scritto contenere la specificazione di tali esigenze. Il contratto può essere prorogato, solo quando la durata iniziale è inferiore a 24 mesi, e, comunque, per un massimo di 4 volte a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga.

Assenza delle ragioni giustificatrici, Jobs Act: non previsto.

Assenza delle ragioni giustificatrici, Decreto Dignità: In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle condizioni giustificatrici, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi.

Analogamente, il rinnovo o la proroga del rapporto oltre i 12 mesi stipulati in assenza delle condizioni giustificatrici comporta la trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.

Termine di impugnazione, Jobs Act: L’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire entro 120 giorni dalla cessazione del singolo contratto.

Termine di impugnazione, Decreto Dignità: Il termine per l’impugnazione è incrementato a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto.

Disciplina transitoria, Jobs Act: nulla.

Disciplina transitoria, Decreto Dignità: Le nuove disposizioni trovano applicazione a tutti i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dal 14 luglio 2018 nonché ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti successivi al 31 ottobre 2018. Pertanto, a decorrere dal 12 agosto 2018, con riferimento ai contratti stipulati fino al 13 luglio 2018, si applicano le disposizioni previste dalla disciplina previgente fino al 31 ottobre 2018 ovvero è consentita:

  • la proroga del rapporto fino a 5 volte, senza obbligo di apporre ragioni giustificatrici e fino una durata massima di 36 mesi;
  • il rinnovo del rapporto senza obbligo di apporre ragioni giustificatrici e fino una durata massima di 36 mesi.

Cosa cambia circa la “Contribuzione addizionale”.

Legge Fornero (Legge n. 92/2012): Ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato si applica un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.

Decreto Dignità: Il contributo addizionale è aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione. L’incremento contributivo previsto in caso di rinnovo non si applica ai contratti di lavoro domestico.

(Fonte IPSOA)

Mobilità in deroga aree crisi complessa: come richiedere la proroga fino a dicembre

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L’INPS, con la circolare n. 90 dell’1 agosto 2018, dispone le modalità di richiesta e concessione del trattamento di mobilità in deroga, a favore dei lavoratori che hanno cessano il diritto nel semestre dal 1° gennaio 2018 al 30 giugno 2018. La durata massima della proroga è pari a dodici mesi e in ogni caso non può andare oltre il 31 dicembre 2018. Oggetto di intervento sono i lavoratori di aziende che operano nelle aree di crisi industriale complessa riconosciute a condizione che a tali lavoratori siano contestualmente applicate misure di politica attiva individuate in un apposito piano regionale, da comunicare al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro.

Le aree di crisi complessa riconosciute nel periodo dall’8 ottobre 2016 al 30 novembre 2017, comunicate dal Ministero dello Sviluppo economico, sono Venezia-Porto Marghera (D.M. 8 marzo 2017) e Campania, Poli industriali di Acerra-Marcianise-Airola, Battipaglia-Solofra, Castellammare-Torre Annunziata (D.M. 22 novembre 2017).

La procedura fruizione prevede che siano le Regioni a trasmettere al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ed all’ANPAL il Piano regionale di politiche attive del lavoro contenente:

  • le specifiche misure di politica attiva;
  • l’elenco nominativo e il codice fiscale dei lavoratori interessati;
  • la data di cessazione del precedente trattamento di mobilità ordinaria o in deroga;
  • il periodo di godimento del trattamento concesso in prosecuzione (data “dal” e data “al”);
  • il costo del trattamento.

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dopo aver effettuato la propria valutazione in ordine alla sostenibilità finanziaria, comunica all’Inps e alla Regione il nulla osta per l’autorizzazione dei trattamenti previsti. La Regione emana il provvedimento di concessione conforme, in relazione all’elenco dei beneficiari, alla durata del trattamento ed al periodo concesso, alle valutazioni del Ministero vigilante e contenente il riferimento normativo e la matricola INPS dell’azienda di appartenenza del lavoratore.

L’INPS verifica la disponibilità delle risorse ed effettua il pagamento.

Per ottenere il pagamento della prestazione il beneficiario deve presentare un’apposita domanda on-line di mobilità in deroga, entro i termini ordinari di prescrizione decennale.

La prestazione costituisce reddito imponibile assimilato a quello da lavoro dipendente e dunque soggetto al regime della tassazione ordinaria. Il lavoratore decade dal trattamento qualora trovi una nuova occupazione a qualsiasi titolo.

(Fonte IPSOA)

Protezione dati personali: definiti gli interventi ispettivi per il secondo semestre 2018

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Con la deliberazione n. 437 del 26 luglio 2018, il Garante per la protezione dei dati personali ha stabilito che, per il periodo luglio-dicembre 2018, l’attività ispettiva di iniziativa curata dall’Ufficio, anche per mezzo della Guardia di finanza, è indirizzata:

  • ad accertamenti in riferimento a profili di interesse generale per categorie di interessati nell’ambito di trattamenti di dati effettuati da società/enti che gestiscono banche dati di rilevanti dimensioni, istituti di credito e società per attività di telemarketing;
  • a controlli nei confronti di soggetti, pubblici o privati, appartenenti a categorie omogenee sui presupposti di liceità del trattamento e alle condizioni per il consenso in materia di durata della conservazione dei dati.

Si prevede dunque l’effettuazione di n. 30 accertamenti ispettivi di iniziativa effettuati anche a mezzo della Guardia di finanza.

L’Ufficio, inoltre, potrà avviare ulteriori attività istruttorie di carattere ispettivo d’ufficio ovvero in relazione a segnalazioni o reclami proposti.

(Fonte IPSOA)

Chiusura aziendale: attenzione al calcolo delle ferie

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Si definisce “ferie collettive” il periodo di riposo che l’azienda è tenuta, per legge o per contratto, a concedere ai propri dipendenti mediante chiusura dell’esercizio, dello stabilimento, fabbrica, ufficio in tutte le sue articolazioni: ciò comporta la materiale impossibilità di effettuare gli obblighi di contribuzione nei termini di legge.

La fattispecie include anche il caso in cui, durante il periodo feriale, l’impresa, alla luce delle peculiarità dell’attività svolta, necessiti di mantenere comunque in servizio alcuni lavoratori (ad esempio per la manutenzione degli impianti o addetti a lavorazioni che si effettuino a ciclo continuo) purché la generalità del personale rimanente non sia in servizio per usufruire del periodo di riposo per ferie.

Il diritto a riposo settimanale e ferie annuali retribuite è sancito dalla Costituzione (articolo 36, comma 3) e regolamentato dal Codice Civile (art. 2109), dal D.Lgs. n. 66/2003 e successive modificazioni.

Ogni lavoratore ha diritto a un minimo di 4 settimane di ferie. Tale periodo minimo può essere aumentato dalla contrattazione collettiva. La legge prevede anche precise regole e tempi di fruizione:

  • 2 settimane continuative se richiesto dal lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione;
  • altre 2 settimane possono essere fruite in maniera frazionata, entro 18 mesi dalla conclusione dell’anno di maturazione
  • ulteriori giorni eventualmente stabiliti dalla contrattazione collettiva o individuale, fruibili in maniera frazionata, secondo i contratti o gli usi aziendali.

Il codice civile all’art. 2109 richiede inoltre che il periodo annuale di ferie retribuito sia “possibilmente continuativo”, quindi pone un limite al datore di lavoro nella scelta del periodo di ferie dei propri lavoratori e tutela il vero scopo del periodo di riposo, vale a dire l’effettivo recupero delle energie psicofisiche del lavoratore.

La decisione dell’impresa di chiudere l’azienda durante un determinato periodo dell’anno, obbliga di fatto i dipendenti ad andare in ferie durante quel periodo senza che questi possano in alcun modo opporsi. Nel determinare i periodi di ferie dei vari dipendenti, il datore di lavoro deve tener conto di quanto previsto dalla normativa in materia, quindi ad esempio deve consentire al dipendente, qualora questi lo richieda, di fruire di almeno due settimane continuative di ferie.

N.B. Nel caso di lavoratori neoassunti o di lavoratori che non hanno un ammontare di ferie maturate sufficiente a coprire l’intero periodo di chiusura aziendale per ferie, il datore di lavoro è tenuto al pagamento della retribuzione per i soli giorni maturati.

Entro il 31 maggio 2018 di ogni anno il datore di lavoro può presentare domanda di differimento degli adempimenti contributivi in corrispondenza della fruizione delle ferie collettive aziendali: in caso di accoglimento da parte dell’INPS, è possibile rimandare fino alla riapertura delle attività, senza sanzioni, il versamento dei contributi, l’invio del flusso UniEmens e l’indicazione nel LUL delle presenze.

N.B. La richiesta di autorizzazione è limitata ai versamenti di un solo mese anche se il periodo di ferie è a cavallo tra due mesi. In questo caso il differimento degli adempimenti viene applicato alla mensilità in cui ricade la maggior parte del periodo feriale.

L’importo dei contributi oggetto di versamento differito deve essere maggiorato degli interessi di dilazione al tasso in ragione d’anno vigente al momento del pagamento dei contributi.

In caso di mancato divieto da parte dei contratti collettivi, il datore di lavoro può richiamare il lavoratore dalle ferie in presenza di giustificato motivo: in questo caso, il lavoratore avrà diritto a consumare la parte restante in un secondo momento.

Anche in caso di malattia il lavoratore può sospendere la fruizione delle ferie. In particolare:

  • se la malattia interviene prima dell’inizio del periodo feriale, la stessa determina la mancata fruizione delle ferie, che verranno godute successivamente;
  • se invece la malattia interviene durante le ferie, il lavoratore ha diritto di goderle dopo la guarigione, previo accordo con l’azienda a condizione che la malattia occorsa rappresenti un impedimento per l’effettivo riposo e quindi impedisca il pieno godimento delle ferie.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che le ferie, così come altre legittime assenze della lavoratrice, non possono sovrapporsi con i periodi di congedo di maternità: la lavoratrice in congedo deve poter fruire in un periodo diverso delle ferie, anche in caso di coincidenza fra il congedo di maternità e la chiusura dell’azienda per ferie collettive.

Anche la malattia del bambino, che dia luogo a ricovero ospedaliero, interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento da parte del genitore.

Con riferimento ai permessi ex legge n. 104/92, il Ministero del Lavoro ha chiarito che sono differenti le finalità dei suindicati istituti: le ferie, volte al recupero delle energie psico-fisiche impiegate nello svolgimento dell’attività lavorativa e alla realizzazione delle esigenze anche ricreative personali e familiari; i permessi, invece, mirano a garantire al disabile un’assistenza morale e materiale adeguata.

Sulla base di questa premessa, appare evidente che i permessi per assistenza familiari disabili e le ferie costituiscono due istituti aventi natura e carattere totalmente diversi e non “interscambiabili”: la fruizione delle ferie, dunque, non incide sul godimento dei permessi e non è ammesso un riproporzionamento degli stessi permessi in base ai giorni di ferie fruiti nel medesimo mese.

(Fonte IPSOA)

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