L’ultimo provvedimento legislativo in materia di lavoro non sfugge alla tendenza delle più recenti riforme di intervenire sulla disciplina dei licenziamenti.
Dopo la riforma “Fornero”, che ha scomposto l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sostituendo il monolite della tutela reale con una gradazione di diversi regimi in relazione alla gravità delle ragioni individuate, aprendo alla tutela obbligatoria anche per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti, è stata la volta del D. Lgs. n. 23/2015.
Le tutele crescenti del Jobs Act lungo la traccia della diversificazione delle tutele, superando l’art. 18, hanno introdotto meccanismi di prevedibilità per le sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato, calcolate con parametri predeterminati in base all’anzianità di servizio e per la loro applicazione sottraggono qualsiasi momento valutativo discrezionale ai giudici.
Anche il decreto Dignità, così come la riforma Fornero e le tutele crescenti, interviene sulla materia delicata della regolamentazione dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti e ne modifica la disciplina relativa alle conseguenze della declaratoria di illegittimità.
Il D.L. n. 87/2018 opera sui canoni delle tutele crescenti aumentando i valori minimi e massimi di riferimento per il calcolo delle mensilità da riconoscere in caso di licenziamento ingiustificato perché privo della giusta causa o del giustificato motivo, che adesso passano da un minimo di sei ad un massimo di trentasei. L’aumento risulta apprezzabile soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio minima o superiore ai 12 anni, mentre nel periodo intermedio, dai tre ai dodici anni di anzianità di servizio, il “costo” del licenziamento risulta sostanzialmente identico.
Nel processo di conversione del decreto, la legge n. 96/2018 ha apportato modifiche analoghe ai criteri di calcolo dell’indennità per l’offerta conciliativa che il datore di lavoro può proporre con l’art. 6 del d.lgs. n. 23/2015, entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, per scongiurare la lite sulla verifica della legittimità del provvedimento. In questo caso la misura minima è portata a 3 mensilità e quella massima a 27, contro le 2 minime e le 18 massime della versione originaria della norma.
Si tratta di un intervento che oltre a porsi quale naturale corollario del generale aumento delle misure indennitarie per i licenziamenti ingiustificati, appare inoltre evidentemente destinato a recuperare la proporzionalità proprio con quelle altre misure, in conseguenza dell’aumento operato per l’indennità disposta dal giudice in caso di impossibilità di composizione bonaria, per restituire all’offerta conciliativa, oltre alla rapidità e snellezza del procedimento, quell’appetibilità, unita al trattamento fiscale e contributivo favorevole, che l’intervento sull’art. 3 rischiava di sminuire. Aumentando gli importi in caso di condanna, il rischio del giudizio poteva risultare più accettabile, a fronte di indennità più basse nel caso di un’offerta (e di un accordo) di natura conciliativa.
Le nuove norme sono immediatamente operative e, nel silenzio della legge, che non prevede regimi transitori né alcuna indicazione in merito, sulla scorta della giurisprudenza e dell’esperienza maturata in relazione a situazioni simili, pare potersi ritenere che i nuovi limiti per calcolare le indennità da riconoscere in caso di licenziamento illegittimo o in sede di composizione bonaria in esito all’offerta conciliativa proposta dal datore di lavoro, possono essere applicati anche ai licenziamenti irrogati prima dell’entrata in vigore delle nuove norme, per i quali il procedimento non si sia ancora definito.
Su un apparato sanzionatorio non immune da critiche e perplessità è di recente intervenuta anche la Corte costituzionale, che accogliendo (parzialmente) la nota ordinanza di rimessione del 26 luglio 2017 del Tribunale di Roma, ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal D.L. n. 87/2018 – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Ciò, secondo il comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale del 26 settembre 2018 (al momento della redazione di questa breve nota la sentenza non è stata ancora depositata), perché “la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 della Costituzione”.
La dichiarazione di incostituzionalità della Consulta, la cui concreta portata potrà verificarsi con la pubblicazione della sentenza, determina immediatamente un nuovo grado di incertezza sui criteri di determinazione della indennità da riconoscere in caso di licenziamento ingiustificato. È evidente che sarà il giudice a determinarla, nuovamente secondo discrezionalità, attingendo verosimilmente ai canoni già noti e mutuati dallo Statuto dei lavoratori (art. 18) e dalla legge sui licenziamenti individuali (art. 8, legge n. 604/66), con la conseguente possibilità di ribaltare il rapporto tra tutele crescenti e art. 18, con il primo regime che, nell’incertezza, potrebbe rivelarsi anche più favorevole dell’anelata applicazione della norma dello Statuto.
Roma, 11 ottobre 2018
(Fonte IPSOA)