Il giudice, se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, con la sentenza con la quale dichiara la nullità o l’inefficacia del licenziamento illegittimo, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, anche al pagamento di un’indennità risarcitoria. Tale indennità è commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto ed è dovuta dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 86 del 23 aprile 2018, ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, quarto comma, dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92) che attribuisce natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, provvisoriamente esecutiva, fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima sentenza.
Lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 86 depositata il 23 aprile 2018, risolvendo il giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, con ordinanza del 26 luglio 2016, iscritta al n. 253 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Come la legge Fornero ha modificato lo Statuto dei lavoratori
Il richiamato articolo 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel novellare l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, riferendosi alle ipotesi in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dispone che «[il giudice […] annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione».
In ogni caso per l’indennità risarcitoria si assume come misura l’ultima retribuzione globale di fatto e non può essere superiore a 12 mensilità della stessa.
Le argomentazioni dell’Avvocatura Generale dello Stato
Secondo l’Avvocatura Generale dello Stato, nella sua attuale formulazione il quarto comma dell’articolo 18 della legge n. 300/1970, «contempla a carico del datore di lavoro due sole obbligazioni, aventi entrambe natura risarcitoria, alternative tra loro in via di gradata subordinazione, e costituite, la principale, da un facere, la reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato dal lavoratore illegittimamente licenziato – risarcimento in forma specifica –, e, la subordinata, da un dare, operante in caso di inadempimento della prima, rappresentato dal pagamento di un’indennità sostitutiva, predeterminata dalla legge nella misura e nella durata – risarcimento per equivalente». Con la conseguenza che, in caso di mancata reintegra, il diritto al risarcimento mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva non potrebbe cumularsi, come prospettato dalla difesa della lavoratrice, con il diritto alla retribuzione, che presuppone l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.
La questione posta dal Tribunale di Trento
L’intervento del Tribunale di Trento sarebbe, secondo la Corte Costituzionale, inteso ad ottenere una pronuncia “sostitutiva”, che sostanzialmente ripristini l’originario contenuto precettivo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante all’ordine di reintegrazione, sarebbe inoltre tenuto a corrispondere al lavoratore, per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e fino alla reintegrazione, le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro.
La decisione della Consulta
La Corte considera la questione non fondata nel merito. In punta di diritto, la citata disposizione nel prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non è “irragionevole”, come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente. Nemmeno è violato il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione per la disparità di trattamento che deriverebbe tra il datore di lavoro che nelle ore dell’ulteriore giudizio adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che viceversa non vi ottemperi, corrispondendo al lavoratore l’indennità risarcitoria di cui può essere chiesta la ripetizione qualora sia accertata la legittimità del licenziamento. Si tratta, conclude la Corte Costituzionale, “di due situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost.”.
(Fonte Ipsoa)