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Dimissioni del lavoratore: in quali casi spetta la NASpI

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Il lavoratore che si dimette non ha diritto alla NASpI. Questa fattispecie trova tuttavia numerose deroghe nell’ambito della normativa vigente tutte le volte in cui la volontà espressa dal lavoratore di cessare il rapporto di lavoro non è espressione di una libera ed individuale volontà, ma in qualche modo indotta da comportamenti o circostanze esterne. É importante conoscere questi diversi casi in modo approfondito anche perché, al ricorrere delle medesime fattispecie, il datore di lavoro è parallelamente obbligato a versare all’INPS il contributo di licenziamento.

Il lavoratore che decide di dimettersi dal posto di lavoro subordinato non ha generalmente diritto alla NASpI, parallelamente il datore di lavoro che recepisce un atto dimissionario da parte del proprio dipendente non è obbligato a versare il contributo di licenziamento. Tuttavia, il nostro ordinamento giuridico non esclude il diritto alla NASpI nelle ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto derivanti da condotte o fattori esterni quali ad esempio il mancato pagamento della retribuzione, molestie sessuali nei luoghi di lavoro, modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative, mobbing e trasferimento del lavoratore.

Dimissioni per giusta causa

Le dimissioni per giusta causa (art. 2019 del Codice Civile) derivano da situazioni rispetto alle quali non è possibile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Deve trattarsi, quindi, di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, in primis l’elemento della fiducia, che deve effettivamente sussistere fra le parti.

In questo caso, l’atto di dimissioni, ancorché proveniente dal lavoratore, deriva da una condotta datoriale non corretta e lo stato di disoccupazione non può essere qualificato come atto volontario.

Per questa ragione il lavoratore ha comunque diritto al trattamento di NASpI in tutti i casi rispetto ai quali la giurisprudenza ha stigmatizzato il ricorrere delle condizioni già indicate, tra cui ad esempio:

  • mancato o tardivo e reiterato pagamento della retribuzione;
  • molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
  • modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
  • mobbing;
  • notevoli e ingiustiticate variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione dell’azienda;
  • trasferimento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art. 2103 del Codice Civile;
  • comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente.

Liquidazione giudiziale del datore di lavoro

Il Codice della crisi d’impresa (D.Lgs. n. 14/2019) dispone che la cessazione del rapporto di lavoro conseguente alla liquidazione giudiziale costituisce perdita involontaria dell’occupazione con conseguente riconoscimento al lavoratore, laddove ricorrano gli altri requisiti di legge, dell’indennità di disoccupazione NASpI.

In questo caso le dimissioni per giusta causa rassegnate dal lavoratore hanno decorrenza con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, quindi, con decorrenza retroattiva rispetto alla data in cui le stesse vengono rassegnate. Il termine di 68 giorni stabilito, a pena di decadenza, per la presentazione della domanda di NASpI decorre dalla data in cui il lavoratore rassegna le proprie dimissioni e non dalla data della cessazione del rapporto di lavoro.

Procedura per le dimissioni

Il lavoratore che si dimette per giusta causa deve indicare nel modello telematico di dimissioni la sussistenza della “giusta causa” e altrettanto è tenuto a fare il datore di lavoro nella comunicazione Unilav. Tuttavia, ai fini del diritto alla NASpI, il dipendente dimissionario deve manifestare la sua volontà di difendersi in giudizio, allegando alla domanda di Naspi una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da cui risulti la volontà di difendersi in giudizio contro il comportamento illecito del datore, volontà che deve essere dimostrata allegando una serie di “atti idonei”: diffide, esposti, denunce, citazioni, sentenze, ricorsi d’urgenza contro il datore di lavoro.

Il lavoratore deve poi impegnarsi a comunicare l’esito della controversia, giudiziale o extragiudiziale. Qualora la lite si concluda escludendo la sussistenza della giusta causa di dimissioni, l’INPS provvede a recuperare quanto già erogato a titolo di NASpI o di indennità di disoccupazione.

Altri casi di spettanza della NASpI

In caso di risoluzione consensuale il lavoratore può avere diritto alla NASpI soltanto in caso di:

  1. procedura obbligatoria di conciliazione (art. 7 Legge n. 604 del 1966);
  2. risoluzione consensuale derivata da un accordo dovuto ad un iniziale rifiuto del lavoratore al trasferimento ad altra sede distante più di 50 km dalla propria residenza, o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici.

La NASpI spetta altresì in caso di recesso per:

  • dimissioni presentate dalla lavoratrice madre nel periodo ricompreso tra i 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del figlio;
  • dimissioni presentate dal lavoratore padre, durante il primo anno di vita del figlio, se è stato fruito del congedo di paternità obbligatorio;
  • morte o grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre.

Fonte IPSOA.it